La Filarmonica della Scala, che macina concerti a ritmo impressionante, ha fatto tappa domenica sera al Ravenna Festival: con il suo direttore musicale Riccardo Muti. Se si pensa che l’organico è costituito dagli stessi elementi che suonano le opere in teatro, c’è di che essere sinceramente ammirati da questa capacità di tenuta e di concentrazione. Alcune scelte felici, come la costante frequentazione del grande repertorio sinfonico e di Beethoven in special modo, hanno rafforzato la qualità dell’orchestra, prima spremendone l’orgoglio, poi maturandone la sicurezza: frutto, quest’ultima, di una evidente consapevolezza stilistica, in aggiunta alla sempre piú solida preparazione strumentale. Soprattutto le file degli archi, e dei violini in particolare, hanno acquisito un peso e una flessibilità ragguardevoli, sia per spessori di insieme che per varietà di dinamica; l’immissione di strumentisti giovani e di valore ha irrobustito la linfa e accresciuto gli stimoli del complesso: non occorre cedere a inutili trionfalismi per confermarne con soddisfazione la crescita e l’autorevolezza.
Un’esecuzione come quella della Settima Sinfonia di Beethoven, in condizioni ambientali quasi proibitive al Palazzo De André, non sarebbe stata altrimenti possibile: se non perché partiva da una base già alta. Su questa Muti ha costruito un’interpretazione molto sfaccettata e pensata, intensa e ispirata: dove l’intenzione stava nell’idea di sposare le emozioni del canto e le ragioni del contrappunto alla vivacità ritmica di cui la Sinfonia è permeata, individuando, perfino negli incisi piú scattanti e danzanti, una dimensione quasi severa, sempre ariosamente equilibrata nei richiami. Il «legato» di Muti consente alle frasi di connettersi distesamente nelle misure formali di un percorso unitario senza fratture, cui il rispetto di tutti i ritornelli conferisce le reali, grandiose proporzioni di un disegno tanto visionario quanto profondamente articolato.
Nella prima parte, dopo la fiammeggiante Ouverture dell’Olandese volante di Wagner, si udí in prima assoluta una nuova composizione di Giacomo Manzoni, Il deserto cresce: tre metafore da Friedrich Nietzsche tradotte per coro e orchestra. Non è certo il caso di dispiacersi che Manzoni sia passato a scrivere musica in modo piú artigianale e concreto. Piú sfuggente risultava invece il senso tematico e spirituale delle metafore, e i rapporti di causa ed effetto tra le parti che tumultuando s’intrecciavano e concrescevano non furono a un primo ascolto immediatamente percepibili. Eppure l’esecuzione parve vibrante, come se Muti volesse sfatare il luogo comune di un’insensibilità alla musica contemporanea, e l’orchestra e il coro (anch’esso promosso Filarmonico, splendidamente curato da Roberto Gabbiani) con lui dimostrare che tutto, volendo, si può fare.
da “”Il Giornale””