Mosè Aronne. Il successo è dodecafonico

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Schönberg fa bene al Maggio

Al Comunale di Firenze bravi con Zubin Mehta tutti gli artisti. Ma bravissimo il pubblico

 

Firenze – Incredibile. Dieci minuti di applausi. Convinti. Insistenti. Non per la Bohème, o Rigoletto (ahi Scala, impara). Per Moses und Aron di Arnold Schönberg. Un trionfo, un’apoteosi. Forse era il ritorno al Teatro Comunale dopo l’esilio quasi biblico, con una gran voglia, caduta la minaccia dello sciopero, di mostrare con unghie e denti 1’orgoglio di una città ferita alla ricerca di se stessa. Forse c’entrava anche un po’ di snobismo tipicamente forentino, di una Firenze però, per una volta, non provinciale ma adulta e matura. Comunque, una bellissima testimonianza di fede. Degna dell’opera prescelta per l’inaugurazione del 57mo Maggio Musicale Fiorentino.

Mose und Aron è come la Corazzata Potemkin nel cinema, il Settimo Sigillo del teatro musicale: un’opera di culto. Difficilmenle accessibile ai più. Parla un linguaggio ostico, rigorosamente dodecafonico, e s’occupa di temi spirituali refrattari a incarnarsi sulla scena. Di come il pensiero, per divenire azione, debba cercare la parola. E di come la parola sfugga, o sia inadeguata, a rendere l’idea di Dio. Per due atti faticosi, ma meravigliosamente importanti, si affronta questo contrasto: attraverso le figure di Mosè, l’idea, e di suo fratello Aronne, la parola. Manca il terzo atto, perchè Schönberg, dopo averne scritto il testo completo, non riuscì, o potè, metterlo in musica. Così non dette all’opera una conclusione verosimilmente adeguata, ma fece della sua incompletezza un emblema dell’arte del nostro secolo.

Difficile credere che il pubblico fosse abituato alla proposta ( a Firenze l’opera non si dava dal 1969, e per la prima volta era interamente realizzata da complessi artistici italiani) e che ne venisse a capo con coscienza analitica. Ma sentiva il richiamo di una causa giusta, apprezzandone I’impegno.

Non poteva sfuggire, invece, la particolare riuscita dell’esecuzione. Guidata da Zubin Mehta con una scioltezza che vorremmo sempre attestata su questi livelli di profondità e di bravura; realizzata con superlativa preparazione e gioia di esibirsi dal coro e dall’orchestra, il primo superbamente concentrato sull’espressione, la seconda attenta all’intonazione e allo stile come raramente si ascolta in questa partitura impossibile. Una compagnia di canto senza pecche, e commovente nell’arte nobile di Theo Adam (Mosè) e nello slancio generoso di Thomas Young ( Aronne), avvicinava l’opera al pubblico: fino a farla sembrare un linguaggio necessario per pensare l’impensabile e dire l’indicibile. Una rivelazione. Anche senza scena, in forma di concerto.

da “”La Voce””

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