Monaco, Ur-Boris

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Crudo, serrato, geniale: così nacque Boris

D’accordo, non era la prima volta che 1′ Ur-Boris, la prima versione del Boris Godunov di Mussorgsky composta tra l’ottobre 1868 e il dicembre 1869, veniva eseguita in teatro. Ma era la prima volta a nostra memoria che veniva eseguita con tutti i crismi dell’ufficialità, e nella vera prima versione, in un grande teatro. Grande teatro qui significa semplicemente: grande orchestra, coro adeguato, compagnia importante, allestimento non in economia. Come si dovrebbe fare per l’altro Boris, quello che andò in scena per la prima volta al Teatro Marinsky di San Pietroburgo il 27 gennaio 1874, e che è un’acquisizione relativamente recente, e si fa normalmente per gli altri Boris, quello un tempo dominante nella revisione di Rimsky-Korsakov e quello oggi preferito, che presenta tutte le musiche composte in fasi successive nell’orchestrazione ricostruita sulle indicazioni originali dell’autore. Ossia, a tacere di molte singole aggiunte, con l’atto polacco, la scena della cattedrale di San Basilio e quella, posta a conclusione, della foresta di Kromy.

La scelta coraggiosa e intelligente dell’Opera di Stato bavarese ha dato la conferma, definitiva, che l’ Ur-Boris è un’opera non soltanto completamente diversa da tutte le altre ma anche capace di reggere alla grande il peso della scena: non dunque una semplice prova d’autore, ma la realizzazione già perfetta di un’idea drammatico-musicale profondamente nuova e originale, forse sperimentale, ma non priva di unità e di coesione. Anzitutto sul piano drammaturgico: nella successione serrata e sempre piú concentrata dei sette quadri che la compongono, divisi in quattro parti (e non in “”atti””), a Monaco assai opportunamente eseguiti senza intervalli, per un totale di due ore e un quarto ininterrotte di musica, vicende individuali e cornice storica si fondono in modo da rispecchiarsi e completarsi fino al massimo della tensione; per poi svanire lasciando un alone di sospensione e di mistero. Solo apparentemente, infatti, la conclusione con la morte di Boris chiude l’opera: in realtà, quella morte non è che il compimento di un destino individuale racchiuso nella figura dello zar, dal quale si prolungano infiniti destini, individuali e collettivi, destinati a rimanere incompiuti: e l’idea che il teatro sia il luogo di una rappresentazione obiettiva di conflitti eterni, che Mussorgsky avrebbe ulteriormente approfondito, piú che nelle successive versioni del Boris, nella Kovanchina, trova la sua massima espressione nella concisione e nella essenzialità di un dramma tutto centrato sui contrasti e sulla immediatezza dell’azione. Dei cui significati il canto dell’Innocente, nella scena della Cattedrale di San Basilio che precede la morte di Boris, costituisce una premonizione piú che un’esplicitazione: il giudizio rimane sospeso di fronte alla storia. E da ultimo: la crudezza e la “”povertà”” della strumentazione originale, con quelle linee purissime e quei chiaroscuri senza compromessi e mezze misure, trovano qui una ragione d’essere poetica e musicale, consostanziale al dramma com’era stato concepito.

L’ulteriore merito di questa presentazione stava nell’efficacia della regia di Jobannes Schaaf, tesa a estrarre i temi e i contenuti dell’opera in piena adesione al suo spirito e alla sua drammaturgia, e soprattutto nella bellissima direzione di Valery Gergiev, di una lucidità tesa e intimamente russa, carica di slanci e di abbandoni. Nella compagnia di canto a un protagonista veterano della parte ma come rinato da questa prova, Paata Burchuladze, si affiancavano ottimi cantanti e attori, con punte di spicco nel Pimen di Kurt Moll, nello Schuisky di Kenneth Riegel e nell’introverso falso Dimitri di Alexej Steblianko.

Musica Viva, n.8/9 – anno XV

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