Come intrusi al concerto degli eterni
Può un’idea, un sentimento, in questo caso un’esecuzione musicale essere contemporaneamente supremo artificio e verità rivelata? E fino a che punto siamo complici con la nostra attesa e la nostra immaginazione di ciò che si produce per mezzo di un’interpretazione sconvolgente nella reazione biochimica della nostra sensibilità e della nostra incertezza, fino ad avere l’impressione che tutto sia così definitivamente chiaro da sembrare astrattamente assurdo, impenetrabile, irraggiungibile?
Il concerto che segnava il ritorno in pubblico di Arturo Benedetti Michelangeli con Sergiu Celibidache e i Münchner Philharmoniker nella sala della Philharmonie a Monaco appare ora un momento esaltante sospeso tra la gioia dell’attesa e la malinconia del ricordo; vivendolo, si ebbe soprattutto una sensazione palese di stati d’animo contrastanti: estraneità e vicinanza, gelo e calore, abbandono e solidarietà. Eppure, a voler essere sinceri, pochi altri concerti riuscivano a comunicare una infelicità, un disagio altrettanto profondi e inesplicabili di questo. Probabilmente questa affermazione non ha niente a che fare con il dato obbiettivo di ciò che si è ascoltato in fatto di note, di colori, di suoni: nella fattispecie il Concerto in sol di Ravel, eseguito in modo talmente… da sembrare solo un pretesto qualunque per avvicinarsi a un altro mistero.
(Per completare i puntini di sospensione si dovrebbe far ricorso a un intero repertorio di superlativi, e si potrebbe in fondo scegliere a caso fra quelli mormorati o urlati dal pubblico che non si decideva a sfollare dal tempio in preda a una frenesia molto eccitante e assai poco liberatoria; o, meglio, andarli a cercare in coloro che tacevano, rimanendo pensierosi e immobili). Ma non era questo che contava. Le meraviglie di Michelangeli sono conosciute in misura inversamente proporzionale alla frequenza delle sue esibizioni. E sono tali da apparire reali e irreali al tempo stesso; anche, anzi soprattutto, quando si manifestano dal vero. Non basterebbe il catalogo di rappresentanza del pianista perfetto a contenerle: forza, agilità, esattezza, brillantezza, nitidezza, varietà di attacco, sfumature di tocco, magia dei timbri, distribuzione dei piani sonori, uso incantatorio del pedale, e via elencando. Ciò che si racchiude nel termine “”tecnica”” è qui non solo virtuale bensì reso esplicito in una sorta di lucido delirio dell’onnipotenza. Chiunque lo può intuire, anche chi non abbia dimestichezza con i meccanismi sofisticati dello strumento, o non abbia letto i libri di Piero Rattalino. Nel Concerto di Ravel, del resto, tutti questi requisiti si addensano in una specie di viaggio terminale e aurorale insieme ai confini del pianoforte; e dunque si spiega perché Michelangeli lo prediliga e lo isoli tra i suoi favoriti nel poco Novecento ch’egli frequenta: ogni volta, per l’appunto reinventandolo ex novo, come entusiasticamente e statisticamente asserivano, magari a ragione, i suoi fedelissimi puntualmente accorsi in pellegrinaggio a Monaco, gridando al miracolo.
A che cosa porta questa luciferina padronanza delle più inimmaginabili possibilità tecniche ed espressive (giacché nell’un termine rettamente inteso è da sempre compreso l’altro) del pianoforte di Michelangeli? Ecco il punto: porta a una specie di risucchio nel vuoto, a una visione onirica che ci fa perdere il senso dello spazio e del tempo reale. Forma, stile, convenzione, precedenti, nulla esiste più: noi entriamo in una dimensione di sogno nella quale non siamo più padroni di noi stessi, e nella quale i particolari di una frase elegiaca, di un ritmo icastico, di un’armonia spettrale, di una folgorante costellazione di suoni si ingigantiscono fino a diventare entità a sé stanti, mondi bellissimi ma chiusi, iridescenze luminose che ci abbagliano, segnali di cammini impercorribili da altri. Via via che Michelangeli suona, si allontana da noi, fino a rendere la distanza incolmabile: lo stato ipnotico si impadronisce della nostra volontà, l’ascesi diviene ebbrezza, obbligandoci a una vicinanza in apparenza intimissima ma repellente al contatto; e non basta più ammirare i pensieri, le strabilianti invenzioni timbriche, la logica tuttavia stringente nell’interpretazione di un mondo caleidoscopico e vertiginoso da cui siamo fagocitati ed espunti. L’infelicità nasce da ultimo dalla consapevolezza che ciò che ci viene offerto non è semplicemente un’esecuzione musicale, ma una possibilità irresistibile di guardarci dentro fino in fondo, in un’introspezione che si compie per interposta persona: e vivere anche per brevi istanti nell’assoluto di riflesso genera una condizione di disagio, fors’anche una confusione di valori e di identità.
La presenza di Celibidache acuisce questo senso di lontananza, anche se in una prospettiva diversa. Con Celibidache non è l’interprete a isolarsi in un’altra dimensione in cui rispecchiarsi, ma è la musica stessa ad allontanarsi progressivamente dall’immediatezza dell’ascolto per diventare rito celebrativo e dimostrativo. Ciò è evidente dal modo in cui egli affronta i suoi beniamini, siano essi il Rossini della Semiramide, il Mozart sereno della Sinfonia “”Haffner””, come in questo caso, ma anche Beethoven o Brahms o Bruckner, già più volte uditi in quella specie di santuario che si è costruito a Monaco e dove è venerato come un ministro del culto della nostalgia classica: il furtwängleriano custode della grande musica. Un sacerdote che non affida nulla all’improvvisazione e della fede incrollabile nei suoi principi fa ogni volta una sfida alla miscredenza. L’incarnazione del suo mondo come volontà e rappresentazione sono i Filarmonici di Monaco, un’orchestra che con lui ha raggiunto un grado di tensione e di affiatamento che non ha uguali.
Ancora più sgomentevoli se si pensa che con Celibidache ogni partitura viene rivoltata come un guanto: con salti mortali da capogiro per arrivare al cuore della musica intesa come restituzione non della tradizione, ma di un’idea della sua grandezza, solenne e monumentale. Bisogna sentire l’ampiezza di dinamica o i bilanciamenti fra le sezioni, la qualità di quei piano e di quei forte, il movimento interno delle parti in quei tempi sostenuti dal respiro profondo e grave dell’incedere ineluttabile di antiche processioni per rendersene conto: una cura del suono e del fraseggio maniacale, raggiunta con prove ripetute e inflessibili. Ogni concerto, qualunque sia il programma, comporta sei prove più la generale: quale altra orchestra al mondo lavora oggi sempre con lo stesso direttore così a fondo e così a lungo? I risultati si sentono tutti: e sono risultati commisurati alle intenzioni di Celibidache nei confronti del significato che sta al di là della musica. Ora, l’idea di Celibidache è opposta a quella di Michelangeli, nel senso che per lui la musica è il fine, non il mezzo. Ma appunto nel momento in cui, come in questo concerto, gli opposti giungevano a toccarsi, si realizzava quella sublime unione di artificio e di verità nella quale si materializza la rivelazione più alta dell’attacco interpretativo e della figura stessa dell’interprete: costretto da un lato a sopravvivere in un’epoca epigonale di vuote apparenze come mediatore della grande musica, dall’altro ad annullarsi nell’illusione dell’eterna giovinezza di un mondo perento. E’ fin troppo evidente che nella ostinata perseveranza con cui tanto l’uno quanto l’altro ripropongono sempre le stesse opere fondamentali s’incuneano, più ancora del gusto e dell’approfondimento, l’esorcismo dell’attimo fuggente e la convinzione dell’eterno ritorno. E a ogni ritorno l’aspetto dimostrativo riacquista valore, accrescendo la nostra stupefatta ammirazione per tanta sapienza e intransigenza e il nostro disagio per la realtà dell’opera d’arte sempre più lontana dall’immediatezza della semplice, fedele percezione. In questo senso Celibidache officia riti di una religione dell’arte con gerarchie dimostrativamente stabilite e governate da lui stesso: credere o non credere, non esistono vie di mezzo.
Abbiamo ascoltato a Monaco un concerto indimenticabile, unico nel suo genere, ma con la sensazione di essere non tanto dei privilegiati quanto degli intrusi. E quando alla fine di Ravel, collocato nella seconda parte, Michelangeli ha annunciato che avrebbe eseguito una serie di fuori programma in onore del suo amico Sergiu che compiva ottant’anni in quei giorni, venne suggellato un patto tra due grandi personalità fuori d’ogni tempo, in una sfera così privata e intima da farci quasi vergognare di rimaner lì ad ascoltare: vicini e pur lontani dal pianoforte di Michelangeli e dalla regale poltrona in cui Celibidache, come un papa della musica, aveva preso posto per ascoltare e ricordare. E chissà cosa si nascondeva di segreto in quello Chopin, in quel Debussy, così struggenti da spezzare il cuore, dopo un ultimo, ironico sorriso di compiacenza.
Musica Viva, n. 8/9 – anno XVI