Monaco: L’anello del Nibelungo

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La nuova Tetralogia prodotta all’Opera di Monaco dal team Sawallisch, Lehnhoff (Nikolaus, regista), Wonder (Erich, scenografo), Parmeggiani (Frieda, costumista) doveva essere uno degli avvenimenti di punta, di fatto attesissimi, della stagione teatrale in corso. Lo è stato? Sì e no. Lo poteva essere? Sì e no. Non vogliamo fare gli spiritosi, e neppure sottrarci a un giudizio chiaro. Allestire il colosso wagneriano nell’arco di poco più di una settimana, tutto insieme, come si fa altrove solo a Bayreuth, è un’impresa ragguardevole, degna di un grandissimo teatro, che di per sé merita rispetto e gratitudine. Affermare che l’operazione sia riuscita in modo totale e convincente è però un altro discorso. Forse non era neppure troppo lecito attenderselo: rappresentare oggi L’anello del Nibelungo comporta tanti e tali problemi da escludere a priori l’unanimità di giudizio, per offrire semmai elementi di riflessione, di discussione, di approfondimento su un testo che ha perso ogni aura mitica ed è diventato oggetto di interpretazione critica, specchio che riflette e amplifica le ansie e le incertezze del nostro tempo inquieto. La ricerca di un significato attuale della Tetralogia moltiplica le esigenze del teatro di regia moderno, anche a costo di costringere la musica entro spazi ristretti, ricostruiti ad arte: è ciò che hanno fatto Ronconi e Chéreau, molto togliendo e molto svelando, e che anche Lehnhoff ha tentato di fare a Monaco.

La sua interpretazione mette da parte programmaticamente l’intento narrativo, quasi dandolo per scontato, e punta invece a evidenziare i nodi cruciali del dramma, contrassegnandoli con simboli che, introdotti nel Prologo, si sviluppano poi nell’arco dell’azione delle tre giornate. Un voluto anacronismo, che da una ambientazione ancora mitica giunge fino alla civiltà moderna delle metropoli (la reggia dei Ghibicunghi) e delle macchine spaziali (nella Walkiria e nel Sigfrido) passando attraverso la tappa obbligata dell’epoca di Wagner (l’interno borghese della casa di Hunding nel primo atto della Walkiria), è la cifra nella quale il regista vuol riassumere l’intero percorso della storia dell’interpretazione scenica della Tetralogia, fino all’attualità contemporanea. Ne scaturisce una visione improntata a un cupo pessimismo, di segno globalmente negativo: e a farne le spese sono in primo luogo i personaggi di Wotan e di Sigfrido, messi fuori giuoco fin dall’inizio, forse troppo presto, e riscattati soltanto dalla pietà che si stende sulla loro sconfitta. Per Lehnhoff, la Tetralogia è una parabola sul trionfo del male, tratteggiata ora con ironia ora con sadico accanimento.

E chiaro che le figure che rappresentano le forze del male, come Alberich e Hagen, assumono in questo contesto un rilievo speciale. Su tutti spicca però il personaggio di Loge (Robert Tear), cui Lehnhoff affida il ruolo quasi protagonistico del narratore. Durante il preludio orchestrale dell’Oro del Reno, mentre sfilano le immagini proiettate su uno schermo del naturalistico fluire del fiume mitico, Loge appare sul proscenio in smoking e scrive sul sipario una, due, dieci volte, “”Es war einmal””, “”C’era una volta””: quasi a suggerire nel pubblico il ricorso di una favola eterna e immutabile, che di lì a poco verrà nuovamente rievocata. Ed è lui stesso a riapparire in proscenio alla fine del Crepuscolo degli dei per togliere da un vecchio grammofono, dopo che l’olocausto di Brunilde si è consumato, il disco consunto che ha ultimato il suo giro; mentre in orchestra l’enigmatico epilogo, con l’ineffabile tema della redenzione, s’impenna a prolungare il suo canto.

Se, come Lehnhoff sembra proporre, tutto nella Tetralogia è già stato detto e non resta che prenderne atto con dolorosa rassegnazione, temerario appare il parallelo con l’ambientazione moderna, e nello stesso tempo affascinante. La roccia delle Walkirie immaginata come una navicella spaziale in orbita sul globo terrestre, che domina da lontano, e che sempre più si allontana dalla realtà della terra portando a rovina l’inconsapevole Sigfrido, la cui iniziazione alla tecnologia è qui fonte di tragiche conseguente nel Sigfrido e nel Crepuscolo degli dei (ed è Wotan stesso a scoprire la rampa di lancio da cui l’eroe spiccherà il volo verso la liberazione di Brunilde), ha una strana, sinistra efficacia, magnificamente esaltata dalle allusive scene di Wonder; e non sacrifica la musica proponendo un’interpretazione alla luce delle esperienze di oggi, nella quale Wotan può osservare su un monitor telespaziale la raccolta degli eroi da parte delle Walkirie e programmare con Brunilde al computer la prossima campagna. Uno degli aspetti più riusciti di questa messinscena è proprio la definizione dello scorrere del tempo in cui si svolge l’azione, dal remoto passato del mito alla immaginazione avveniristica di una società dominata dagli strumenti della più sofisticata tecnologia, mezzo di strapotere e insieme di distruzione, dove l’umanità è destinata a soccombere in una definitiva catastrofe.

La battuta che Loge dice verso la conclusione dell’ Oro del Reno, rivolta agli dei, e cioè “”Alla loro fine essi si appressano, essi che così forti nel loro durare si credono””, potrebbe essere l’amara epigrafe del lavoro di Lehnhoff. Niente vale a salvare il mondo dalla colpa originaria, che per lui (ma in fondo anche per Wagner) risale alla spartizione della terra fra dei, nani e giganti. Il resto ne è solo una conseguenza, compresa l’immancabile metafora della dittatura che governa militarmente, per mezzo di Hagen, la reggia dei Ghibicunghi nel Crepuscolo. Pur nel suo eccesso di catastrofismo tipicamente germanico, l’idea portante ha un suo fondamento: rischia però sovente di snaturare il denso intreccio di temi e di contrasti che la musica di Wagner continuamente presenta e sviluppa moltiplicando le relazioni e i simboli, là dove invece la regia si intestardisce in una lettura a senso unico.

E così Sawallisch fatica a trovare un equilibrio fra ciò che si vede e ciò che si sente, soprattutto nei momenti più appassionati e luminosi della Walkiria e del Sigfrido, i quali sono poi quelli a lui più congeniali. Raramente lo avevamo visto così impegnato a sbracciarsi per trarre dall’orchestra ogni possibile sfumatura, anche a costo di forzare talvolta i rapporti sonori e di comprimere i nessi dell’articolazione drammatico-musicale. Sawallisch, che pure ha voluto questa regia, non sembra convinto fino in fondo della sua pertinenza e, da musicista generoso qual è, cerca tuttavia di fare la sua parte con assoluta dedizione. Per una volta, le meritatissime ovazioni del pubblico sono andate ai suoi dubbi e alla sua capacità di rimettersi in discussione, anche rischiando molto, piuttosto che alla inattaccabile solidità del suo alto professionismo.

La compagnia di canto raccolta a Monaco per questa Tetralogia è probabilmente la migliore che oggi si possa mettere insieme tale perfino da rintuzzare il grido di dolore sulla scarsità delle voci wagneriane. La Behrens ha ormai maturato il personaggio di Brunilde su valori supremi, e lo stesso Kollo è apparso rigenerato da una riflessione più meditata sulle possibilità del suo strumento. Studer (Sieglinde), Schunk (Siegmund), Lipovsek (Fricka), Wlaschiha (Alberich), Pampuch (Mime), Salminen (Hagen) sono i nomi su cui puntare da ora in avanti a occhi chiusi per il rinnovamento degli interpreti wagneriani. Ma è stato soprattutto James Morris a far rivivere in Wotan e nel Viandante emozioni da lungo tempo dimenticate, come se davvero la storia dell’interpretazione wagneriana, regie permettendo, avesse ancora davanti a sé un futuro sfolgorante e ricco di rivelazioni.

Musica Viva, n. 6 – anno XI

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