Non si diventa Kabuki tutt’in una volta
Le manifestazioni estive, i festival dall’impatto internazionale sono importanti per le città che li ordiscono? Forse si potrebbe fornire una misura chiedendosi se aiutano la vita artistica durante 1’anno. Là dove succhiano tutti soldi delle attivita di quando la gente c’e nella citta, per porsi come una prestigiosa vetrina, posson essere definite dannose.
C’e un ‘altra misura: le novita di idee, le proposte di produzioni, i nomi lanciati. Dove si raccattano per piacere i grandi nomi, quelli che fanno piu cassetta, e da cui sappiamo che cosa aspettarci, le manifestazioni sono semplicemente rassegne per pubblico locale. Eppure sono queste che più invitano i critici da fuori, li alloggiano, insistono perche se ne parli. Vi sembra logico?Sì, nella logica commerciale nel suo aspetto piu banale. Ma non fingiamo altro.
L’Opera di Monaco cambia rotta. Sawallisch ha lasciato, e al suo posto è subentrato un nuovo team, formato da un sovrintendente sessantottino molto vivace e attivo (Peter Jonas) e da un Generalmusikdirektor di solida scuola e sicura efficienza (Peter Schneider). Per la prima volta nella storia di questo teatro il capo non è nè un musicista nè un regista, ma un organizzatore e un inventore di idee per spettacoli tutti fatti da altri, e non è un tedesco: molto e bene pare che egli abbia operato alla English National Opera, a Londra. Lo si è chiamato per svecchiare gli allestimenti, per promuovere un nuovo repertorio: aria fresca, ecco quello che si vuole da lui. Ma con giudizio. Per questo gli è stato affiancato un direttore, Schneider, capace di spaziare all’interno del repertorio tradizionale come un Kapellmeister all’antica, e nello stesso tempo sensibile alla curiosità del nuovo e disposto all’avventura: garantire la continuità della gestione sera dopo sera per trecentoventi giorni al1’anno sarà affar suo. A quale livello di qualità, rimane per principio una questione qui come altrove difficilmente risolvibile se non con interventi strutturali, da quadratura del cerchio. Urge trovare modelli nuovi per il teatro di repertorio. Modelli nuovi per il teatro… Già, ma come?
E probabile che La donna senz’ombra presentata al festival di quest’anno a Monaco sia solo la prima di una lunga serie di contaminazioni fra tradizioni teatrali diverse, tra Occidente e Oriente, alla luce dei cammini del mondo, del1’attualita. Era una messa in scena da teatro Kabuki, affidata a uno dei massimi esponenti di quel genere, 1’attore e regista giapponese Ennosuke Ichikawa. Che cosa significa interpretare kabukianamente la favola morale e teatrale di Hofmannsthal e Strauss? Essenzialmente significa trasferirne lo spirito in una dimensione estranea, ricondotta alle radici di un tipo di teatro fondamentale diverso. Significa adottare una tessitura scenica impostata su simboli e allegorie contrastanti, su una recitazione iperir-realistica e statica. L’operazione può funzionare, al limite, per un pubblico giapponese, cui si voglia accostare 1’opera facendo leva sull’esperienza della sua cultura teatrale (e in questo senso era nata per le rappresentazioni a Nagoya e Tokyo del novembre scorso: auspice Sawallisch, che lì l’aveva diretta); non funziona invece più quando venga riproposta nella cornice di un teatro occidentale, per un pubblico che del Kabuki ha un’idea tanto vaga quanto probabilmente parziale. Si dirà che a Monaco Die Frau ohne Schatten è
un’opera di repertorio, e dunque tutti possono apprezzare gli aspetti di una visione inconsueta (la ritualità dei gesti, la teoria delle figure e dei colori, 1’astrattismo dei segni) compensandola con la propria conoscenza degli elementi originali pensati dagli autori: come si trattasse, appunto,
di un arricchimento di punti di vista del già noto. Ma si risponderà che a soffrirne è in primo luogo 1’equilibrio tra azione e musica, tra segno e significato, tra ambiente e psicologia: in altri termini, la vera a propria economia teatrale, del testo e della musica. Tanto più che l’idea di fondo si riduce enormemente quando sia realizzata da cantantiattori che quella gestualita, quella ambientazione, quella suggestione visiva e poetica non sappiano rivivere in prima persona; e che quindi si sforzino di raggiungere una naturalezza che mai potranno possedere, per forza di cose e di abitudini. Non si diventa kabuki per caso o frettoloso studio, ci par di capire; come non si diventa di colpo cantanti straussiani o attori shakespeariani. Soprattutto quando da una vita si cantano questi ruoli con stentorea drammaticita (come Janis Martin) o li si affrontano per le prime volte con comprensibile titubanza (come Alan Titus, Luana De Vol e Kenneth Garrison). Anche il direttore, Horst Stein, non fece molto per assottigliar l’ingegno e calarsi nella speciale situazione: al contrario di Sawallisch, senso della grande linea e cura dei particolari significativi non sono la sua qualità.
Lady Macbeth di Mzensk, capolavoro di Shostakovic che a ogni nuovo ascolto cresce assai nelle nostre quotazioni dell’opera del Novecento, non è invece di repertorio, neppure a Monaco. Che cosa fa un regista in questo caso tedesco (e di sicuro valore cinematografico, come Volker Schlondorff) quando deve allestire un’opera straniera in Germania? La germanizza, ossia la traduce in una lingua che parli direttamente alla sensibilità, alla cultura e al carico di memorie (come si sa gravato ancora da sensi di colpa) del pubblico tedesco; e non importa che, come accade in un festival di questo rango, il pubblico poi sia solo in parte tedesco: quel che conta è il referente primario, e questo è lui. Siamo qui di fronte alla soluzione opposta, e insieme complementare, dell’operazione Kabuki: l’interiorizzazione nella storia indigena, nell’animus loci. Debitamente esasperata sul versante realistico e grottesco, e poi astratta in metafora dimostrativa.
Leggere la storia di Katerina Ismailova come una vicenda “”universale”” ambientata in una squallida cittadina di provincia tedesca d’oggi (o di ieri, non è cio che conta) è anche possibile, salvo che nei momenti in cui 1’anima e il paesaggio russo si stagliano in primo piano, prepotentemente, inequivocabilmente: ma per questi punti si puo sempre pensare alle emigrazioni di massa, dopo la caduta del muro, e quindi alla ricostituzione di quei nuclei anche di qua, in terra straniera. La vicenda e per così dire vista in prospettiva tedesca: non solo realisticamente nella lingua, ma anche nel modo di essere, di pensare e di reagire, tedesco: ovviamente grave, brutale, irrazionale, proprio come il cinema e la televisione ce lo presentano. Schlondorff è molto bravo nel ricreare con verosimiglianza questa conversione, e nel conferirle quei tratti di ironia grottesca che sono Parma piu aguzza dell’intellettuale tedesco contro il potere e 1’autoritarismo (sia istituzionalizzato che riprodotto nei cancri sociali: perbenismo, ottusita, conformismo). Talchè pare convincente e perfino emozionante, nel suo teorema perfetto, quel finale che adombra la cacciata degli esuli dalla Germania ostile e matrigna per riconquistare, chiusa, la natia terra madre, la Russia rigenerata e liberata dei sogni e delle speranze. Come dire: la Siberia siamo noi, dove sara 1′ubi consistam della verità, della pace e dell’umanità riconciliata con se stessa e col mondo? Depressione, pessimismo, senso di colpa e utopia: questo il periplo di sempre di un certo modo di pensare, filosofico e irrazionale insieme, dell’uomo di cultura tedesco. Schlondorff ne offre un bellissimo riepilogo nel teatro d’opera di oggi.
Si parlava all’inizio di modelli cercando di almanaccare sulla nuova rotta dell’Opera di Monaco. Questi due spettacoli, importanti e a loro modo entrambi incisivi, sono istruttivi di una fase che pare
molto di ricca possibilità, e insieme chiusa, prossima al vicolo cieco. Sappiamo forse da dove partire, non ancora dove andare. Si procede per tentativi, via via esaurendo, o almeno provando, direttrici che nell’univocita racchiudono la molteplicita. Per fortuna abbiamo ancora qualche splendida certezza: per esempio che finchè esisteranno artisti come Hildegard Behrens, la Lady di Monaco, l’esperienza dell’opera rimarrà 1’emozione più esaltante e sconvolgente per i sonnambuli e i sognatori, comunque vadano le cose. E anche qualche ragionevole conferma: Pete Schneider, che la dirigeva, è una scelta giusta, calibrata per Monaco; anche agli occhi di chi difficilmente si rassegni alla fine delle care consuetudini con il suo predecessore.
Musica Viva, n. 9 – anno XVII