Fino all’annientamento del silenzio
Non è che ci siamo abbonati ai concerti di Sergiu Celibidache e dei Mtinchner Philharmoniker, la sua magnifica orchestra, come la frequenza con cui ormai ne diamo conto potrebbe far pensare. Il fatto è che quello che si è appena concluso è stato un anno tutto particolare per lui, e non solo perché coincideva con il suo ottantesimo compleanno. C’è stato il ritorno trionfale nella sua patria d’origine, la Romania, dopo tempo immemorabile, e quello un po’ me-no trionfale (non per lui, ma per l’ambiente) a Berlino alla guida dei Berliner Philharmoniker, che l’hanno chiamato dopo intrighi e fatti lontani
che si dicevano superati e che ora sembrano avergli dichiarato un nuovo ostracismo in seguito alle sue esternazioni non proprio benevole sulla qualità dell’orchestra medesima (pare che Celibidache abbia ritardato apposta la partenza di tre giorni per farsi sentire). Ci sono stati poi, a cavallo dell’estate, cinque concerti straordinari (di nome e di fatto) con Arturo Bene-detti Michelangeli, e quello al-quanto bizzarro del 28 giugno, giorno appunto del compleanno, in cui Celibidache, dopo aver dato una festa in proprio onore, ha congedato tutti quanti per dirigere senza pubblico la Quinta Sinfonia:
lui, l’orchestra e Beethoven da soli. Bizzarria semplicemente sublime.
E ora, dulcis in fundo, il con-certo più atteso, o almeno più desiderato dal Maestro, con riguardo specialissimo per la composizione del programma: prima gli Ultimi quattro Lieder di Richard Strauss, sorta di messaggio inequivocabile per chi lo sappia intendere alla maniera di un custode dei classici, di una bellezza radiosa soprattutto se a can-tarli è la lunare Jessye Norman (fortemente inseguita e voluta a tutti i costi da Celibidache: per lei è stato pagato l’ingaggio più alto mai con-cesso a Monaco a un cantan-
te per un pezzo con orchestra); e poi la Sinfonia n. 6 “”Patetica””di Ciaikovsky, se possibile ancor più rappresentativa del Celibidache-pensiero in fatto di direzione e di musica tutta (si può ancora di-re Weltanschauung, in questi casi?).
Ed è appunto sulla Patetica che vorremmo soffermarci. E non perché il testamento di Strauss non meriti ulteriori commenti: in questa esecuzione, poi! Basti dire che a forza di non sentirla più dal vivo ci eravamo quasi scordati di come canti la Norman, e non so-lo non lo ricordavamo, ma non immaginavamo neppure che si possa cantare così: timbro, portamento, fraseggio, stile, sentimento, emozione, personalità, comunque la rigiriate, dal lato tecnico o espressivo, è l’esperienza più esaltante e beatificante che oggi vi possa capitare di fare con una voce. Vorrei poter dire che l’ho ascoltata per la gioia di tutti voi, e l’ho pensato davvero; anche se ora provo vergogna a confessarlo, e temo la nemesi della vostra giusta invidia.
Ma la Patetica, quella è stata un’altra cosa. In fondo gli Ultimi quattro Lieder sono un congedo sereno, da cui si rimane trasfigurati. Commossi, abbacinati ma felici. Felici di poter pensare un giorno, al tramonto, sentendo risuonare dentro di sé quella musica nell’attimo dell’addio: ecco, così mi immagino la fine di tutto, “”attraverso la gioia e il dolore siamo andati, mano nella mano; ora riposeremo del cammino su questa terra silenziosa””. Non può essere che così: “”è questo forse la morte?””. E sia. Ma la Patetica, con Celibidache, è un’altra cosa. Sofferenza che nulla risparmia, portata al limite dell’insostenibile. Coacervo di rimorsi e di sensi di colpa. Visione impietosa di intollerabili inadeguatezze. Roba che ti fa male, fino all’annientamento del silenzio. Occasione protratta allo spasimo per far capire quanto la musica possa centrare il dolore e il disfacimento: non di un compositore che esprime i suoi stati d’animo attraverso i suoni, ma dell’esistenza stessa che si ferisce e sanguina, al capezzale di tutta l’umanità. Senza trasfigurazioni, senza speranza. E perfino senza ricordi.
Non metterla giù così dura, direte voi. Proverò allora a raccontarvi come faccia Celibidache ad accendere queste fantasie. Sento già la voce esperta, in fondo scettica, che dice: con la lentezza dei tempi, naturalmente. Sì, con la lentezza dei tempi. Questa Patetica è durata 65 minuti. Togliete pure quattro minuti di pause tra un tempo e l’altro, ormai più necessità che rito nelle condizioni di Celibidache: fanno pur sempre 61 minuti. Ma cosa sono questi tempi cronometrici quando una precisa, oggi unica “”cultura del suono”” impone che ogni nota risuoni nella sua intera essenza, e si riverberi sulle note interne e contigue in tuttala sua venia e prolonhta’. Sono tempi semplicemente immaginari, non quantificabili: un’idea del tempo assoluto incarnata nella musica. Negazione del tempo che scorre orizzontalmente, per farsi abisso d’immobilità perenne. E in questa prospettiva un attimo, un’ora o l’eternità divengono la stessa cosa. Ancora fantasie. Accese però – e questo è forse il punto fondamentale di tutto il ragionamento – da una lucidità fredda e tagliente che nega in primo luogo, programmaticamente, il sentimentalismo. Nessuno capirà mai, se non ascoltandolo, come faccia Celibidache a dilatare il tempo togliendo al discorso infinito perfino l’ombra dell’enfasi, a rendere il patetismo granitico, purissimo pathos. E quando si parla di chiarezza, non si tratta di quella lucidità analitica che fa la radiografia della partitura, ma di un’intuizione del respiro che l’ anima, e crea le associazioni tra le funzioni vitali dell’organismo sonoro, tra le parti più differenziate e il tutto. Ne traemmo l’insegnamento che solo il controllo completo, dal di fuori, dell’opera d’arte consente di entrare a far parte viva, quasi consustanziale, della sua essenza, e quindi di rappresentarla eseguendola. Nel caso della Patetica, la mancanza di immedesimazione negli sfoghi, veri o presunti, dell’autore era il segreto per renderne ancora più evidenti i contrasti, che con Celibidache divenivano quasi rabbiose incandescenze, o viceversa per dare alle sospensioni eleganti un tono di ironica condiscendenza, che ne smascherava la finzione solo dopo averla accettata e celebrata.
Tutto ciò avvenne nel segno di una grandezza che metteva quasi paura per la sicurezza dimostrativa con cui era magistralmente esibita. Eppure non v’ era in essa niente di spettacolare: al contrario, essa sembrava giocare con la realtà stessa della sua esistenza. Lo stordimento fu anche la conseguenza di una rivelazione che pezzo dopo pezzo smontava ogni certezza acquisita, e al suo posto non collocava altre certezze, ma solo inquietudini, e un tremendo senso di disperazione, come dopo essersi persi in un labirinto senza poter ritrovare la via d’uscita. Fu così che si accesero quelle fantasie. Sogni. Incubi. Dei quali ancora mi vergogno: senza temere però questa volta la vostra invidia. Perché se l’aveste ascoltata, questa Patetica, forse avreste perso una parte di voi stessi, e oggi la stareste ancora cercando, con sgomento.
Musica Viva, n. 1 – anno XVII