Bianco, rosso e nero: un manicomio, un sex-shop, un tribunale
“”Odi et amo, quare id faciam, fortasse requiris. / Nescio, sed fieri sentio et excrucior””. Chi non conosce, fin dai tempi beati della scuola, questi versi di Catullo? Pare che Carl Orff, il compositore bavarese morto otto anni fa all’età di ottantasette anni, li leggesse per la prima volta non in una raccolta di poesie ma su una cartolina raffigurante la grotta di Catullo, durante un soggiorno sul Lago di Garda, nell’agosto 1930. Aveva allora già trentacinque anni; ma – potenza della poesia e delle scoperte turistiche! – ne fu subito infiammato e giacché si avviava a diventare un compositore pensò bene di procurarsi l’originale e di metterlo in musica. Fu però solo dopo la creazione dei Carmina Burana, l’opera sua universalmente famosa su testi latini, tedeschi e francesi antichi dalla raccolta scoperta nel 1847 presso l’Abbazia di Benediktbeuern in Baviera, che Orff decise di far seguire alla prima una seconda “”cantata scenica”” ricavata dalle liriche di Catullo, i Catulli Carmina appunto (eseguiti per la prima volta a Lipsia nel 1943, sei anni dopo i Carmina Burana, nel frattempo accolti con successo soprattutto in sede concertistica).
Dovevano passare ancora dieci anni affinché a questi due lavori se ne aggiungesse un terzo di carattere simile, Trionfo di Afrodite, su testo del compositore da Catullo, Saffo ed Euripide. E ciò al fine di riunire il tutto in un “”trittico teatrale””, globalmente intitolato Trionfi, la cui prima rappresentazione assoluta ebbe luogo nientemeno che alla Scala, il 14 febbraio 1953, con la direzione musicale e la regia di Herbert von Karajan. Fu un totale insuccesso, imputato in primo luogo alla regia improvvisata di Karajan, che apportò alle due ultime partiture drastici tagli e spostamenti; un insuccesso comunque tale da far credere a Orff che la sensibilità poetica degli italiani non meritasse quell’antico retaggio di cultura.
A Monaco, come è chiaro, le cose andarono subito meglio; fin dal 5 marzo di quello stesso anno, quando i Trionfi furono eseguiti – ma più prtfdentemente in forma di concerto per la riapertura della Sala d’Ercole nella Residenza – sotto la direzione di Eugen Jochum, già allora apostolo di Orff. Una volta “”riabilitati””, a Monaco sono tornati più volte, e sempre con successo; tanto da spingere Wolfgang Sawallisch a sceglierli per l’inaugurazione del suo festival di luglio, nella cornice teatrale per la quale erano nati.
O almeno erano stati immaginati. Giacché nessuno dei tre pezzi che compongono il trittico è propriamente un’opera, e tanto meno un atto unico che stia a sé o possa integrarsi con gli altri. I Carmina Burana, come tutti sanno, sono una raccolta di “”cantiones profanae”” tenute insieme da un tenue filo, di natura più poetica e tematica che teatrale; i Catulli Carmina, che recano il sottotitolo di “”Ludi scaenici””, sono un’evocazione di stati d’animo e di illuminazioni contrastanti sul motivo dell’ amore come esaltazione e depressione; che non hanno, né vogliono avere, una drammaturgia o una storia (e difatti per rappresentarli si deve ricorrere a una coreografia che raddoppi il canto dei solisti e del coro). Quanto a Trionfo di Afrodite, è un “”concerto scenico”” che si richiama ai modelli rinascimentali dell’oratorio profano, nel quale il trionfo di Venere è inteso quale incarnazione dell’amore che celebra se stesso scendendo dal piano ideale, divino, a quello umano, concretamente sensuale (la deflorazione della sposa come rito di iniziazione alla vita, al piacere e al dolore insieme). Va anche detto che delle tre questa è la parte musicalmente più debole: ripetitiva di quegli stilemi neomodali e ossessivamente ritmici che altrove ispirano positivamente la poetica compositiva di Orff.
Difficile mettere in scena tutto questo e fare dei Trionfi uno spettacolo teatrale. Hans Neugebauer ci ha provato astraendosi completamente dalle suggestioni e dalle indicazioni del testo (che, per quanto sommarie, sono date dall’autore), per inventare una cornice diversa nella quale ambientare un’azione sovrapposta alla trama di per sé esilissima del trittico. Tre contenitori – bianco, rosso e nero – che chiudono la scena in enormi scatole individuano rispettivamente un manicomio, un sex-shop (con tanto di cabine per la visione di spettacoli pornografici) e un tribunale in stile monumentale nazista (qui, però, lo chiamano fascista, chissà perché). E dunque, ecco la chiave di lettura: il manicomio è il luogo ove si compie, fra crisi isteriche e improvvisi ritorni alla calma, il rito liberatorio dei rinchiusi che si credono gli studenti dei Carmina Burana; nel sex-shop un gruppo di distinti borghesi in smoking e bombetta assiste alle peripezie degli amori di Catullo e Lesbia, eccitandosi alla visione di giochi erotici promiscui e, si sarebbe detto una volta, proibiti; e infine un tribunale poliziesco in pompa magna emette il suo definitivo verdetto istigando all’orgia, come punizione del trionfo, in un mondo verosimilmente dedito al consumo del sesso e privo di valori, di Afrodite: con conseguente libero sfogo degli istinti ed efferate violenze carnali.
Che tutto questi Sodoma e Gomorra fosse diretto – e come bene, musicalmente parlando – da Sawallisch, nel suo teatro di Monaco, voi non lo credereste mai. E invece sì. “”Così va il mondo””, diceva Mefistofele. E non solo lui.
Musica Viva, n. 10 – anno XIV