Monaco: Festival operistico 1986

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In attesa della nuova Tetralogia completa con Sawallisch-Wonder-Lenghoff l’anno prossimo e del ciclo integrale delle opere di Strauss annunciato per 1’87-88, il Festival di Monaco ha puntato. quest’anno su due nuove produzioni di non minore impegno, la prima assoluta della recente opera di Aribert Reimann Troades e I racconti di Hoffmann, più una esecuzione in forma di concerto di Euryanthe (direttore Sawallisch, protagonista Cheryl Studer) in omaggio al più trascurato degli anniversari che ricorrono quest’anno, quello del duecentesimo dalla nascita di Carl Maria von Weber. Ma come a Monaco è di prammatica durante il Festival sono stati ripresentati anche gli allestimenti di maggior interesse della stagione, fra i quali spicca la discussa messa in scena della Forza del destino di Götz Friedrich, che si avvale della presenza come direttore di Giuseppe Sinopoli.

Questa regia parte dal presupposto che La forza del destino sia un violento atto di accusa contro la guerra e le sue devastanti conseguenze, tali da influenzare e determinare anche il corso degli eventi individuali dei personaggi. Che un atto di accusa contro la guerra significhi condanna contro le dittature, e che dittatura significhi nazifascismo, è ovviamente implicito: così neppure Friedrich ci risparmia. la consueta sfilata di uniformi militari, di orridi simboli bellici, di popolo cencioso e così oppresso che di più proprio non si può. Preziosilla è una mutilata di guerra che arranca sostenendosi su un fucile, Don Carlos un folle, spietato ufficiale, Alvaro probabilmente un disertore imboscato neppure troppo buono a fare il partigiano, e via di questo passo. Curioso è come queste regie ormai si assomiglino tutte e siano tremendamente prevedibili, con la loro coerenza maniacale e la loro abilità – altissima in Friedrich – di far muovere i personaggi e le masse come se non si trattasse “”semplicemente”” di un’opera dell’Ottocento. Salvo poi far cantare i personaggi proprio come i tedeschi si immaginano che debba essere cantata l’opera italiana, a forti tinte melodrammatiche e con acuti svettanti oltre ogni ragionevolezza. Dispiace che Sinopoli, peraltro artefice di pregevoli intuizioni in orchestra, abbia accettato queste incongruenze senza battere ciglio.

Ma la guerra, si sa, è una specie di ossessione che i tedeschi – almeno i registi e i compositori “”impegnati”” – covano in sé come un tarlo che corrode. Anche Reimann, che aveva dato proprio qui a Monaco un indimenticabile Lear, ha scelto per la sua nuova opera un soggetto che ha a che fare con la guerra, riducendo a libretto in collaborazione con il direttore d’orchestra Gerd Albrecht le Troiane di Euripide rivisitate da Franz Werfel. Siamo a Troia, dopo la fine della guerra e l’uccisione di tutti i troiani. Le donne, uniche sopravvissute, sanno che il loro destino è di essere deportate come schiave dei vincitori: Ecuba, Andromaca, Cassandra piangono la loro sorte con fierezza e annunciano a Menelao, venuto a riprendersi Elena, nuove sventure, che colpiranno questa volta i greci. Per tutta risposta Menelao si ritira, consentendo a Taltibio di uccidere Astianatte e di ordinare il rogo della città conquistata.

A parte il piacere di ritrovare i vecchi, cari ricordi di scuola – pensate, mi ci è voluto un quarto d’ora per decidere se Astianatte fosse figlio di Ettore oppure no eppure in greco ero bravino – l’opera di Reimann, pu durando due ore e un quarto senza pausa, si lascia ascoltare come un prodotto di serio artigianato e di sincere intenzioni, senza dire musicalmente niente di straordinariamente nuovo ma facendo le cose bene, con sensibilità. Dopo tutto, lavori come questi ce ne vorrebbero di più, se non altro per sfatare la convinzione che oggi non sia più possibile scrivere opere di teatro anche per un vasto pubblico di frequentatori di festival non specialistici. Reimann, cinquant’anni appena compiuti, conosce la musica a fondo e sa trovare un suo stile anche nel continuo, evidente riferimento ai linguaggi del Novecento, Stravinsky in testa. In Troades almeno un’invenzione ha una bellissima efficacia teatrale, e cioè l’idea di far cantare Cassandra (la bravissima Doris Soffel) nel registro sovracuto, con gorgheggi e fioriture, trilli e nervosi abbellimenti che rendono il carattere allucinato e insieme trasparente della sua tragica preveggenza. Più convenzionale, anche se intrisa di denso lirismo, la parte di Andromaca; tagliato su misura per la classe intatta di Helga Dernesch il declamato insistito di Ecuba. Al vero e proprio trionfo di questa prima mondiale hanno contribuito la direzione di Gerd Albrecht, alle prese con una partitura di calibrata complessità, e lo spettacolo curato con molta misura e tatto, ma anche con buone soluzioni che movimentavano la scena statica, da Jean-Pierre Ponnelle.

Sul filo della tradizione più smaccata, importante addirittura lo scenografo di Salisburgo Günther Schneider-Siemssen, è corsa invece la messa in scena dei Racconti di Hoffmann realizzata da Otto Schenk. Fortemente stroncata dalla critica locale, che invece si impegnava in animate discussioni sulla “”coraggiosa operazione”” di Friedrich, a me questa regia non è dispiaciuta affatto. Oleografica e calligrafica fin che si vuole, essa aveva almeno il peggio di rispettare i luoghi scenici e le indicazioni del libretto senza antimusicali stravolgimenti, facendo capire la storia, i rapporti fra i personaggi e i nodi della vicenda. Certo, il capolavoro di Offenbach, soprattutto nel versante diabolico davvero inquietante e qui ridotto a semplice motore esterno dell’azione, si presterebbe a ben altre invenzioni e approfondimenti interpretativi, messo in mano, poniamo, di un Bergman: la solitudine dell’artista, il conflitto fra realtà e sogno, l’impossibilità di comunicare e di amare sono temi che nell’opera di Offenbach affiorano con sconcertante modernità. Schenk ci dà invece una lettura per così dire di primo livello, ma senza escludere, con forzature univoche, la possibilità di integrare con la propria fantasia e la propria sensibilità il fascino meraviglioso dei simboli. Non è forse un caso che proprio da una regia così poco invadente sia uscita esaltata la parte musicale della serata, che ha avuto in Neil Shicoff un protagonista di assoluto rilievo e nel tiro Sieden – Schimidt – Coburn tre presenze esattamente differenziate e definite. E che le proporzioni tornino quando i registi non eccedono lo ha mostrato l’importanza preminente assunta, nella riuscita dello spettacolo, dal direttore Riccardo Chailly, autore di una concertazione addirittura imprevedibile per scavo interpretativo e raffinatezza di colori, dosata fin nei minimi particolari e convincente sempre, spesso entusiasmante.

Gemma del festival, pur mutilata della realizzazione scenica, Euryanthe di Weber, partitura che non è possibile ascoltare senza trasalire quasi all’attacco di ogni numero. Che opere come questa (o per restare solo a Weber, Oberon) oggi non si rappresentino più in nessun teatro, costituisce un’insensatezza ancora più grave del motivo addotto per spiegarne la ragione, ossia l’insensatezza del libretto. Ciò significa privarsi non solo di una autentica gioia musicale ma anche di un punto di riferimento che aiuta a capire molte cose della storia del teatro musicale dell’Ottocento. Ben venga dunque almeno la mezza via scelta a Monaco da Sawallisch, magari rispolverando, come qui ha fatto, vecchie glorie come Theo Adam e Ingrid Bjoner per ridare il senso di un teatro all’antica, tutto magia e allusione, forza d’immaginazione e fantasia. Un teatro che va ormai a poco a poco scomparendo, e che per paradossale ironia torna a rivivere, nell’epoca del teatro di regia onnipotente, solo privato della scena.

Musica Viva, n. 10 – anno X

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