Neppure nell’anno del giubileo di Wagner, festeggiato con un’integrale senza precedenti di tutte e tredici le sue opere teatrali, il Festival di Monaco ha voluto rinunciare alla consuetudine di chiudere le manifestazioni con I maestri cantori di Norimberga, l’opera più ideologicamente tedesca di tutto l’Ottocento musicale che a Monaco, forse ancor più che a Bayreuth, si celebra come un vero e proprio rito ufficiale. E quest’anno il carattere solenne della rappresentazione era ulteriormente accentuato dal fatto che con essa si intendeva festeggiare i sessant’anni di Wolfgang Sawallisch, giunto al termine della sua prima stagione come direttore unico dell’Opera bavarese con un bilancio visibilmente lusinghiero.
All’integrale wagneriana, voluta, realizzata e diretta da Sawallisch, mancavano ormai soltanto due tappe, in un certo senso le più ostiche dopo la felice riproposta del Divieto d’amare e gli scontati trionfi delle opere consacrate: mancavano cioè Rienzi, la « grande opera tragico-eroica» in cinque atti che grandiosamente conclude la prima fase della produzione di Wagner, e Le fate, lavoro pressoché sconosciuto che quella fase inaugura con tutte le caratteristiche di un opus primi””, per di più scritto a vent’anni. Erano queste appunto le due uniche nuove produzioni offerte dal Festival estivo, in mezzo alla consueta parata del repertorio non soltanto wagneriano della casa.
Rienzi, che lo inaugurava, è senza dubbio l’opera più problematica del periodo giovanile di Wagner e non può essere sbrigativamente liquidata, come lo stesso autore fingeva, alla stregua di un ambizioso quanto maldestro tentativo di addentare i mostri giganteschi del Grand Opéra francese e del melodramma italiano. Giacché Rienzi è non soltanto, per vastità di proporzioni e spiegamento di mezzi, un grande pezzo di teatro che riunisce tutti gli elementi della finzione scenica allo scopo di mirare al consenso del pubblico in un ben calcolato giuoco di effetti, bensì un esempio lucidissimamente, quasi cinicamente concepito di teatro musicale totale, nel quale, con largo dispendio di toni appassionati, le risorse e le possibilità stesse del teatro operistico sono mescolate e alla fine dissolte. In altri termini, quest’opera va contro la tradizione nel momento stesso in cui ne amplifica e potenzia i mezzi espressivi e costruttivi, facendo esplodere le convenzioni col renderle un involucro esterno non più in grado di moderare, sia drammaturgicamente che musicalmente, i contenuti dell’azione. Tutto tende così a sottolineare simbolicamente il pauroso incendio finale che brucia e distrugge non soltanto Roma – teatro dell’azione ma anche centro di una determinata cultura – e il conflitto dei personaggi – che si ritrovano soli con se stessi e sconfitti nei loro ideali, più che utopici, mal riposti – ma anche gli ingranaggi della macchina teatrale, la quale sembra bloccarsi per sopravvenuta, ineludibile morte naturale.
L’ambiguità di una simile operazione sta nel fatto che Wagner, pur mirando a quel successo pratico che tanto sembrava stargli a cuore (e per ottenere il quale in realtà non sacrificò mai un’unghia, artisticamente parlando), non rinuncia a perseguire una mèta volta alla rifondazione del concetto di spettacolo drammatico-musicale; ed è significativo che ciò avvenga prendendo di petto un soggetto storico (l’utopia di Rienzi nel quadro della Roma trecentesca, satura d’intrighi) e dilatandolo a colmare le categorie dell’eroico e del tragico, con un gesto retorico che pervade tutta l’opera ma di continuo si interroga sul suo senso e valore. Gli smisurati momenti statici del secondo e del terzo atto, nei quali la convenzione diviene parodia di se stessa – e certo in quanto tale non appaga l’ascoltatore, che a prima vista non ne percepisce il senso – coincidono con il culmine dello svuotamento dell’azione e della inquietante assenza di sviluppi. In questo lento ruotare su se stesso, quasi gravare, del dramma, balza in primo piano l’apparato spettacolare della musica, per così dire abbandonata a se stessa: i massicci spessori orchestrali, le continue perorazioni degli ottoni, i cori tonanti, le declamazioni forensi di Rienzi accompagnate da ritmi di marcia fissi e da stereotipi accompagnamenti strumentali. Dopo di che, avvenuta la peripezia, nel quarto atto l’invenzione musicale riprende quota e si depura come se avesse riacquistato una nuova, intima forza: siamo alle soglie di un «nuovo inizio». Wagner non manca di sottolineare simbolicamente questo fatto allorché, nella preghiera di Rienzi che apre il quinto atto, riprende, in pianissimo e con raccolta concentrazione, il tema dell’eroe risuonato nell’Ouverture e da allora mai più riudito: risparmiato, con prodigiosa autodisciplina, da tre ore e mezza per questo attimo. Questo riannodarsi della fine dell’opera all’inizio è, da un punto di vista compositivo, un segnale: il teatro musicale totale qui già prefigura, wagnerianamente, l’opera d’arte totale.
Nella esecuzione di Sawallisch, condotta sulla versione riveduta dall’autore per la prima monacense del 1871 – con la parte di Adriano affidata a un baritono, l’ottimo John Janssen – il contrasto di strutture per così dire di facciata e interne costituiva il solido filo interpretativo. Giustamente, Sawallisch non cerca di fare del Rienzi né un’opera da camera né un dramma musicale; accentuagli aspetti effettistici e recupera, già nella resa assorta dell’Ouverture, e poi nel quinto atto, i tratti di una più sottile introspezione psicologica e musicale. Su una linea analoga, a due piani, si muove anche la regia di Hans Lietzau, che rompe la vastità degli spazi scenici e la fissità oratoriale dei personaggi con simboli inquietanti, figurativamente moderni: busti mozzati, enormi mani con l’indice puntato, troni smisurati, ruderi romani, luci taglienti. Questi oggetti si moltiplicano nel corso della vicenda, fino a soffocare il quadro visivo, in stretta correlazione con il soffocare della musica; per lasciare poi spazio nell’ultimo atto alla nuda desolazione della sala del capitolo, ove il dramma si compie. Nella regia di Lietzau si avverte l’intenzione di sovrapporre alla ricostruzione storica una interpretazione moderna, astratta e surreale, ma senza forzare troppo le conseguenze: insomma, con buon gusto e misura, ma restando un po’ a mezzo. Rienzi era René Kollo, tornato ad antichi splèndori; Irene, Cheryl Studer; di alto livello il resto della compagnia.
Neppure per un teatro ultraefficiente come quello di Monaco rappresentare il Rienzi è impresa da poco: e difatti, contrariamente alla regola, sarà ripreso soltanto l’anno prossimo, in sede di Festival. Per la seconda produzione di quest’anno si è scelta così la strada della esecuzione in forma di concerto, con complessi esterni – l’orchestra e il coro della Radio Bavarese – e per due sole sere: onorando però la rarità con una contemporanea registrazione discografica destinata una volta tanto a colmare veramente una lacuna. Scelta molto realistica, giacché mettere in scena Le fate è impresa quasi disperata (Monaco lo fece nel lontano 1888) e probabilmente neppure gratificante, tanto assurda e complicata appare dal punto di vista drammaturgico questa prima opera completa di Wagner. Essa è tratta, con molte licenze, dalla Donna serpente di Gozzi e appartiene, nonostante il sottotitolo – «opera romantica» – al genere fiabesco o magico, con non poche affinità al Flauto magico di Mozart e, sul piano della condotta musicale e vocale, al teatro di Gluck; denuncia però apertamente la sua appartenenza a un’epoca in cui si avviava, dopo Weber, l’approfondimento di un tipo di teatro nazionale che, pur influenzato dalla tradizione italiana – si pensi soltanto alla vocalità rossiniana di Arindal, il protagonista maschile, o ai molteplici echi belliniani – aspirava a costituirsi in poetica autonoma. Di qui l’appellativo di romantico che Wagner, senza indugio, fece suo.
Astutamente Wagner abbatte le barriere delle forme chiuse, di cui l’opera è costituita, predisponendo Finali che da soli durano la metà degli atti: Finali nei quali il tumulto dell’elaborazione musicale si fa vorticoso, manifestando quella predilezione per l’eccesso che contraddistingue la personalità del giovane artista. Qui essa si configura come un abbandono al puro piacere di inventare situazioni estreme, senza preoccuparsi né dei rapporti drammatici né della psicologia dei personaggi, i quali sono soltanto recipienti attraverso i quali la piena della musica scorre travolgente e incurante di ogni ostacolo, quasi divertendosi a creare ed eludere trabocchetti di ogni genere: una bella settima diminuita, e si ricomincia ; da capo. Eppure, dal punto di vista compositivo, si incontrano in quest’opera i presupposti di scelte future, che appaiono il frutto di esperienze consumate assai precocemente: così per esempio la tecnica dei motivi di reminiscenza, quei motivi cioè che esposti nell’Ouverture ritornano poi ciclicamente nel corso dell’azione, già adombra il salto di qualità verso il futuro Leitmotiv.
Esecuzione esemplare, anche per l’ovvio impegno del disco. Splendido Sawallisch, eccellente il terzetto femminile Gray-Anderson-Studer; peccato che all’ultimo momento sia venuto a mancare il tenore Bonisolli, in una parte, nel bene come nel male, a lui adattissima: l’ha sostituito generosamente l’americano John Alexander. Orgogliosamente, questa riproposta delle Fate è stata presentata come il caso musicologico dell’anno, e non a torto: farla cadere tra l’inaugurazione di Salisburgo e le recite del nuovo Anello a Bayreuth, è stato l’unico errore in cui Sawallisch, nel predisporre la sua superba stagione, è incorso come organizzatore.
Musica Viva, n. 10 – anno VII