Mai come quest’anno la scelta dell’opera inaugurale del festival (che era poi anche l’unica nuova produzione) ha suscitato contrasti e critiche. Eppure l’idea di riproporre Il barbiere di Bagdad di Peter Cornelius, opera da noi pressoché sconosciuta e raramente eseguita anche in Germania, dove pur vanta tradizioni interpretative eccelse fin dall’Ottocento, appariva del tutto adeguata al rango di un festival internazionale quale quello di Monaco, che oltretutto ha già in repertorio tutto Mozart, Wagner e Strauss. E proprio l’idea di allargare l’attenzione verso la produzione “”minore”” dell’Ottocento tedesco, e in particolare verso l’opera comica “”leggera”” della stagione romantica, è un po’ il Leitmotiv della gestione di Wolfgang Sawallisch, musicista che ha il “”torto”” di considerare il teatro anche un luogo di cultura e di divertimento.
Che cosa si è rimproverato al Barbiere di Bagdad? Di non essere appunto un’opera di repertorio, una grande opera di massa e di effetto: requisiti che sembrano indispensabili per un’inaugurazione di festival. Spiritosamente definita, per l’esilità del meccanismo teatrale del soggetto, “”un taglio di capelli all’orientale con accompagnamento di musica””, quest’opera rappresenta in realtà un anello di collegamento fra Mozart e Weber da un lato, Wagner e Liszt dall’altro e si pone come un modello dell’opera comica tedesca (Spieloper, ossia opera giocosa) dell’età romantica di mezzo. Non a caso fu proprio Liszt a battersi per eseguirla (a Weimar, nel 1858) e la violenta opposizione che ne nacque provocò le sue dimissioni da direttore di corte. In seguito, prima Felix Motti poi Hermann Levi ne tentarono una rielaborazione secondo i dettami dell’estetica wagneriana, snaturando la sostanza sia musicale che drammaturgica dell’opera. Che non fu più dunque né carné né pesce, e deperì in una sorta di ibrido sottogenere fuori moda.
Il ripristino della lezione originale di Cornelius, compositore assai più fine di quanto non si creda, è una delle virtù della riproposta
monacense. Conoscere Il barbiere di Bagdad nella prassi viva dell’esecuzione non è soltanto un’occasione di riflessione culturale ma anche un piacere dell’ascolto puro, ove non si abbiano preconcetti su ciò che è per noi oggi un’opera di teatro (ma da noi, curiosamente, si è molto più avanti che in Germania a questo proposito). La gracilità della struttura drammatica (niente di paragonabile con Rossini) è compensata dalla brillantezza delle invenzioni melodiche, dalla levigatezza dell’ordito strumentale, dagli stupori fiabeschi che avvolgono personaggi e situazioni in un’atmosfera di sogno, irreale, palpitante di mille richiami sonori: estasi romantiche talora ingenue, fatte di un nulla, tinte di esotismo e di nostalgica intimità. Ma luccicanti come tante minuscole gemme.
Sawallisch, che per queste partiture ha un istinto infallibile, dirige con profusione di sottigliezze e di ammiccamenti, cogliendo i lati più poetici dell’opera (l’idillio dei due giovani Margiana e Nureddin), divertendosi con nobiltà nei passaggi più scopertamente comici (la figura del barbiere petulante) o esaltando l’orchestra nei passi più coloristici e brillanti, talvolta conditi d’un esotismo di maniera. Lo assecondano una regia composta con qualche soverchia sbavatura caricaturale (Otto Schenk), scene e costumi convenientemente orientaleggianti (Rolf Langenfass) e una compagnia di canto di bella omogeneità, nella quale spiccano, accanto a invidiabili comprimari, Lucia Popp, Kurt Moli (il protagonista) e il giovane tenore Peter Seiffert. E alla domanda se ne valesse davvero la pena, rispondiamo con un convinto e grato sì.
Musica Viva, n. 10 – anno VIII