Cercare a tastoni la propria identità
C’è un’intuizione di fondo, nella regia di Dieter Dorn del Così fan tutte di Mozart che apre a Monaco la stagione del dopo Sawallisch, di splendida presa concettuale: e cioè che in quest’opera ambigua, continuamente oscillante tra commedia e tragedia, vi sia una verità così forte da sorprendere anzitutto gli stessi protagonisti della vicenda; al punto da non riuscire a saper più “”cosa son cosa faccio””, e chi scherza e chi fa sul serio. Le lacrime, i sospiri e i tradimenti, fanno parte di questa finzione, o sono finzione nella finzione, ossia appunto verità? E con quali esiti? Dorn fa crescere, fino al finale, esasperandola, la tensione di una recita che assume toni quasi sadici, di una violenza inaudita, che dà le vertigini. E appunto in preda al collasso e alla vertigine, in stato di sonnambulismo, si aggirano nel commiato i sei personaggi sulla scena del Cuvilliés-Theater, cercandosi a tastoni per ritrovare un barlume di identità, per scoprire chi in realtà essi siano e amino, dopo che la prova della fedeltà tradita si è rivelata disinganno di una parvenza di convenzionale certezza.
Dorn ha il merito di cercare un perché dietro la convenzione espressa dalla morale della favola, che “”così faccian tutte””. Semplice banalità, a cui però sovente ci si attiene, calcando il lato farsesco. Fiordiligi e Dorabella non sono solo rappresentanti del loro volubil sesso (statisticamente del resto meno volubile di quello maschile), ma personaggi vivi di una storia che prende la mano a tutti, compreso colui che ne tiene le fila, il burattiniere Don Alfonso: il primo a essere sorpreso, suo malgrado, della piega imprevedibile assunta dalla scommessa. L’opera, mentre si ascolta l’Ouverture a luci accese in teatro, e qualcuno deve ancora prendere posto in sala, comunica fin dall’inizio una strana, impalpabile attesa, tanto che vien da chiedersi: ma è cominciata, o siamo già alla fine? Nella leggerezza, quasi fatuità della prima scena, si sente un’atmosfera lontanamente pesante, seria, e verrebbe da dire: lasciate stare lì, che è meglio. Il tarlo dell’incertezza s’insinua quando ci sembra di intravedere, sullo sfondo del palcoscenico delimitato dalle nude pareti con le scale di servizio e i camerini, le due sorelle che passano in sottoveste, forse preparandosi alla loro entrata, o invece testimoni e magari complici consapevoli della scommessa. Che esse sappiano già tutto e fingano solo di non sapere, ciò spiegherebbe a meraviglia le numerose incongruenze del libretto, che geni del teatro come Da Ponte e Mozart non possono aver a loro volta finto di non riconoscere: le hanno certo calcolate, scommessa nella scommessa. Dorn prova a tirare le somme di questo calcolo. E ne rivela il risultato già nel quintetto degli addii del primo atto, quando come attratte da un destino fatale le due dame insistono a salutare disperatamente soprattutto l’altrui fidanzato, in un momento in cui la situazione permette effusioni cameratesche non ancora sospette.
Entra in scena a questo punto Despina. Più che esperta della vita, navigata osservatrice del mondo dal basso, colei prova orrore per le conseguenze del suo sapere: nella sua disillusione ha eretto un muro che dovrebbe preservarla dall’orrore. Orribile è non tanto che le padrone credano alla corte degli sconosciuti – così va il mondo, da sempre – quanto che si illudano, prima, di poterli respingere, e poi di amarli alla follia, con uguale partecipazione. Ma ciò che sfugge a lei non sfugge a Don Alfonso: ciascuna ama inconsciamente il partner dell’altra; o meglio amano entrambe ciò che non hanno, in virtù di un’idea dell’amore che crede di identificarsi non nel possesso, ma nell’aspirazione alla felicità tanto più assoluta quanto meno realizzabile nella miserevole realtà dei fatti della vita.
Una caduta nella regia di Dorn è l’improvvisa attualizzazione, in una ambientazione fondamentale di esemplare essenzialità senza tempo (scene e costumi di Jürgen Rose, praticamente solo una doppia prospettiva di sfondo e primo piano con pochi oggetti a delimitarne gli spazi), degli amanti travestiti da sceicchi, con tanto di harem al seguito. E ciò provoca in Despina una reazione di tipo quasi razzista (o femminista, finalmente), dietro cui s’intuiscono tragedie da società postmoderna: extracomunitari, guerre allusive che richiamano altre guerre tremendamente reali. Fiordiligi esegue il suo “”Come scoglio”” mimando il significato delle parole come in un gioco a quiz, credendo che l’interlocutore non capisca la sua lingua: e – oh, sorpresa – a divertirsi finalmente è il pubblico, che fino ad allora delle battute in italiano del libretto, molto approfondite da Dorn nella recitazione non plateale, non dava l’impressione d’intendere granché (traduzioni, traduzioni; o almeno sopratitoli, altro che discorsi). La baracconata va avanti sino alla fine dell’atto, la parte più debole dello spettacolo, con i suoi rigurgiti di farsa volutamente smaccata, poco elegante.
Ma nell’intervallo che accade? Accade che i personaggi rimangono in scena, come se ripensassero, dopo quell’ultima mascherata, gli eventi trascorsi, e meditassero sulla continuazione da dargli. E da questo punto in poi lo spettacolo decolla vertiginosamente. Si attende impazientemente che il pubblico ritorni, e barare non è più concesso. Che i corteggiamenti e i cedimenti avvengano senza più travestimenti, giacché gli amanti si ripresentano nella loro vera identità, spogliati non solo dei loro abiti, offre la soluzione teatralmente più vera all’inverosimile intreccio. Se Dorabella cede rapidamente a Guglielmo, ed è subito amplesso animalesco, Fiordiligi si barrica in un angolo accartocciandosi contro il muro per non vedere in faccia la realtà: ma è sorpresa da Ferrando che abbatte la parete di carta dietro di lei, e a quel punto è la donna a prenderlo dolcemente per mano e a condurlo nel luogo dei suoi desideri repressi. Non prima che Guglielmo sia sceso in platea a luci accese e si sia aggirato come un fantasma tra il pubblico per vomitare addosso alle donne che “”la fanno a tanti”” la sua aria di sdegno (strehlerismo, certo, ma di forte impatto emotivo, che genera reale malessere: la riprova è nel riso forzato e inquieto del pubblico). Ora è tutto chiaro. Da qui si fa sul serio. Il dolore del tradimento si muta in ansia d’amore perduto, e cerca nel contatto fisico, nelle carezze che allontanano e sembrano voler dire addio per sempre, una improbabile consolazione. Da ultimo un violento abbraccio fra i due uomini, forse l’ultima possibile solidarietà, suggella la loro vittoria di amanti sconfitti.
Il teorema si chiude. Quando, dopo la festa di matrimonio per burla, i reduci dalla guerra tornano alle rispettive fidanzate, sono indecisi assai su quale salutare per prima.
Attimi di attesa. Pause fulminanti. Silenzi carichi di tensione. Imbarazzo metafisico. E poi essi finiscono per scegliere quella teoricamente sbagliata, ossia a ratificare l’equivalenza degli accoppiamenti. C’è molta amarezza in questo riconoscimento di scambio. E pura formalità svelare l’inganno, giacché ciò non significherà l’incrocio delle coppie, e nemmeno amore a coppie, bensì perdita definitiva di se stessi, se non dell’amore: per tutti. Già il brindisi era stata una celebrazione estrema di una memoria d’affetti fagocitati nel nulla: con un ultimo colpo d’ala la regia si congeda con una danza di spettri, ogni desiderio e valore spento. Se è ormai indifferente con chi stare, nessuno resisterà alla solitudine, e ognuno tornerà a sperare nell’unione ideale. Nella vita come nel teatro, domani sarà comunque un altro giorno. Ed è questa la morale di Così fan tutte.
Regia memorabile, assoluta. Che coglie l’ambiguità sfumata, molteplice della musica, quasi come nel dramma musicale, e in verità che sta oltre l’apparenza, quasi come in uno psicodramma. Giocata con una maestria che della recitazione fa un’espressione della chiarezza indicibile. Servita da una direzione, di Peter Schneider, del tutto imprevedibile per sapere, tensione, sottigliezza, acido umorismo, drammaticità. Esaltata da cantanti che della tanto conclamata compagnia di giovani talenti ammaestrati e guidati con intelligenza fa la vera, unica ipotesi di sopravvivenza dell’opera: molti lo dicono, pochi lo fanno sul serio.
Per la cronaca i loro nomi erano: Amanda Roocroft (Fiordiligi), Marilyn Schmiege (Dorabella, sua sorella), Manfred Hemm (Guglielmo, amante di…?), Rainer Trost (Ferrando, idem), Julie Kaufmann (Despina), Harry Dworchak (Don Alfonso). Non grandi voci, ma presenze di formidabile concretezza: ogni gesto una rivelazione, ogni nota intonata una scheggia di verità. O di calcolata menzogna.
Musica Viva, n.3 – anno XVII