Che un teatro come l’Opera di Stato di Monaco sia in grado di allestire nel corso di tre anni l’intera produzione teatrale di Richard Strauss, senza per questo dover rinunciare ai suoi Wagner, Mozart e Verdi, può sembrare a noi un fatto straordinario, ma è in realtà una cosa quasi normale. A Monaco, infatti, Strauss è di rigore; almeno da quando, nel secondo dopoguerra, la città bavarese ha rivendicato a sé quel ruolo di roccaforte straussiana ch’era stato prima di Berlino e di Dresda, durante la vita del compositore: ruolo assicurato dall’avvicendarsi di una serie di direttori, da Knappertsbusch a Böhm a Keilberth, fino a Sawallisch oggi, che hanno amministrato fedelmente l’eredità ricevuta dalle mani stesse dell’autore.
L’unica novità sta dunque nel fatto che ai titoli correntemente già in repertorio si aggiungono via via per l’occasione quelle opere dell’ultima stagione creativa di Strauss che per loro stesso carattere sono soprattutto un’epìtome, raffinata e preziosa, della storia del teatro musicale novecentesco, e di quella di Strauss in particolare. Tale è anzitutto Daphne, che di quel periodo è il cuore, con il ritorno all’argomento mitologico sotto forma di tragedia in un solo atto, tanto concisa quanto ribollente di citazioni e di richiami al mondo insieme trasfigurato e sensuale prediletto da Strauss.
La favola della ninfa refrattaria all’amore e al contatto umano e del suo puro attaccamento alla natura è calata sullo sfondo di una lotta fremente fra gli opposti princìpi dionisiaco e apollineo, cui la musica di Strauss assegna i contorni di una pregnante evidenza tematica, di genere prettamente sinfonico. La piena dell’orchestra, in cui galleggiano e si rituffano i motivi pastorali da cui germinano i temi dell’opera, assorbe il canto di una potente concentrazione espressiva, che culmina nella staticità armonica e drammatica di lunghi monologhi, arabescati da ornamentazioni di lirica, lucente trasparenza. Quando Apollo, irretito dalla casta bellezza di Daphne durante la festa panica del dio rivale, getta la maschera e supplica l’amore della ninfa, la partitura si colora di una tinta sensuale ed erotica intensa; per poi sciogliersi a poco a poco, nella scena della trasmutazione di Daphne in lauro, in serena, trasfigurata luminosità. Maestro nei finali d’opera, Strauss ripete se stesso nell’affidarsi a una tecnica compositiva che combina la massima espansione vocale e sinfonica con una progressiva riduzione degli elementi tematici a pochi nuclei melodici continuamente variati, su un pedale armonico fisso: espediente che non manca di raggiungere il suo scopo, coronando l’opera in modo emozionante e insieme sicuro. Per essere un capolavoro, a Daphne nuoce l’ingombro di un libretto privo di tensione drammatica, incerto letterariamente fra il calco classicistico e l’approfondimento psicologico. Dopo la morte di Hofmannstahl, Strauss aveva sperato di trovare nell’amico Joseph Gregor un ispiratore e un collaboratore capace di rinverdire passioni antiche in una nuova consonanza d’intenti drammatico-musicali, e fors’anche ideologici. Gregor se la cavò, rifacendo tre volte il libretto, ma non fu propriamente all’altezza della visione mitica e umana perseguita da Strauss in una alternanza di estatici monologhi e di rapidi avvicendamenti scenici. Così la massima parte toccò alla musica, in una sproporzione di situazioni talora marcata, e non sempre riequilibrata dal virtuosismo orchestrale e dalla grandiosa inventiva melodica. Non a caso per il suo testamento, Capriccio, Strauss puntò diritto su un musicista, Clemens Krauss; o meglio fece da sé, abolendo il mito.
È probabile che la difficoltà di mettere in scena Daphne sia intrinseca all’opera nel suo non risolto dualismo. Per questa edizione si è puntato su una scenografia genericamente crepuscolare, ispirata alla pittura di Boecklin, per di più sovraccarica di simboli astratti (di Mihail Tchernaec): nel complesso poco adatta ad accogliere i fremiti della natura e il sentimento paganamente terrestre, ma anche solamente raggiante, evocato dalla musica. Su questo impianto un po’ spento John Cox ha mosso la sua regia serbando fedeltà più alla lettera che allo spirito del libretto, con stilizzata misura e coerenza più che accettabile; rovinando però tutto, con una inopinata forzatura, nel momento topico della trasformazione di Daphne, che qui, anziché ricongiungersi alla terra generando dalle sue stesse radici l’albero del lauro, viene issata sulla scena e rimane appesa come una Madonna di Pompei. Daphne che ascende al cielo? Istintivamente abbiamo chiuso gli occhi, per non rovinare l’incanto del sublime commiato. L’esecuzione musicale rimane così il vero punto di forza. Il che per Daphne è dopotutto l’essenziale. Di una partitura come questa, l’olimpico Sawallisch conosce per naturale affinità i più riposti segreti e li amministra come tesori da svelare senza dubitare, alla stregua di una favola morale. Quando poi è in serata di grazia, il tono narrativo che gli è così congeniale si accende d’impeto e di passione, e brucia senza lasciare residui inappagati. Ma assai interessante è anche la compagnia di canto. Non essendo opera di repertorio, Daphne consente, se non richiede, di tentare l’esperimento con voci giovani, appositivamente istruite, come quelle di Anna Pusar, che ha la statura e l’impegno di una eroina straussiana, e Paul Frey, Apollo squillante ed eroico. Il meglio della casa, da Moll alla Lipovsek ad Ahnsjö, fa il resto, unitamente all’orchestra e al coro. Resta solo il rammarico, per questa Daphne, di una messa in scena pericolosamente destinata a farla adagiare nella routine.
Musica Viva, n. 3 – anno XI