Soggetto
ATTO PRIMO
Alla conclusione della prima guerra punica (264-241 a.C.) i mercenari reclutati da Cartagine si rivoltano contro il Senato della città africana, reclamando il soldo pattuito. Per placarli i nobili cartaginesi offrono loro un banchetto nei giardini della villa di Amilcare. Scoppia la rivolta, fomentata dai libici. Appare Salammbô, figlia di Amilcare, sacerdotessa della dea della luna Tanit e guardiana del mitico velo che protegge la città. La sua apparizione seda gli animi ma accende d’improvvisa passione amorosa Mathô, capo dei guerrieri libici, e il numida Narr’Havas.
ATTO SECONDO
Scena prima. L’ex schiavo greco Spendius convince Mathô a introdursi furtivamente nel tempio della dea per rubare il velo sacro custodito da Salammbô, simbolo della fortuna di Cartagine. Scena seconda. Il tempio di Tanit. Salammbô canta un inno alla dea mentre ne infiora l’altare. Poi si addormenta. Entrano Spendius e Mathô, che si impadronisce del velo. La fanciulla si desta e dà l’allarme. Popolo e sacerdoti invadono la scena.
ATTO TERZO
Scena prima. Nel tempio di Moloch. I sacerdoti sacrificano bambini al dio invocandone, assieme al popolo, il soccorso. Appare Salammbô per annunciare che si recherà nell’accampamento dei barbari per recuperare il velo, anche se le è vietato toccarlo con le sue mani impure.
Scena seconda. La tenda di Mathô. Salammbô, novella Giuditta, seduce Mathô che si addormenta tra le sue braccia. Pur scossa dall’amore del barbaro, riconquista il velo e dà il segnale dell’attacco. Mathô è fatto prigioniero, i mercenari sono annientati.
ATTO QUARTO
Scena prima. Mathô, incarcerato nei sotterranei dell’Acropoli, rievoca il proprio sogno d’amore e il tradimento. Il suo lamento è interrotto da sacerdoti e pentarchi, che lo condannano a morte dopo orribili torture.
Scena seconda. Le sacerdotesse consolano Salammbô, in procinto di andare sposa a Narr’Havas, e l’abbigliano con le vesti nuziali. Durante il banchetto nuziale, nel vedere Mathô torturato a morte, Salammbô non sa nascondere il suo amore per esso e spira accanto a lui.
Tutte le scene non musicate da Musorgskij (ossia l’atto primo, salvo la canzone del baleario e il coro dei guerrieri libici, la prima scena dell’atto secondo, la seconda dell’atto terzo e la conclusione che segue al coro delle sacerdotesse) sono prive di qualsiasi indicazione e dunque puramente induttive: difficile stabilire in che misura Musorgskij intendesse rifarsi per queste parti alle assai ricche sollecitazioni del romanzo di Flaubert.
Studi per un’opera futura
Salammbô è uno dei numerosi progetti d’opera lasciati incompiuti da Musorgskij. Nessuno dei suoi lavori per il teatro si presenta del resto con quel carattere di compiutezza che di solito è prerogativa dell’opera d’arte: non solo nel senso di una veste compositiva finita. Da quando la prima versione del Boris Godunov (in sette quadri, 1868-69) ha cominciato a circolare anche in teatro, nell’orchestrazione originale, si è potuto toccare con mano quanto la sua concezione sia diversa rispetto alla seconda stesura, in quattro atti e nove quadri, del 1871-72: ed è difficile, se non opinabile, stabilire quale delle due vada considerata definitiva. La Chovanščina, cominciata nel ‘72, manca quasi completamente della strumentazione e dell’ultima scena, ma l’idea compositiva è interamente realizzata e l’orchestrazione di Šostakovič, piú della revisione di Rimskij-Korsakov, consente di apprezzarne a pieno tutte le intenzioni. Nello stesso periodo Musorgskij lavorò a un’opera tratta da Gogol’, La fiera di Soročincy, di cui compose due atti o poco piú; mentre del progetto di una nuova opera da Puskin, La Pugacevščina, rimase solo l’abbozzo. Col che la sua carriera si arrestò alle soglie della morte, lasciando un’eredità lacunosa ma comunque pesante.
Anche prima della svolta avvenuta col Boris Musorgskij lasciò frammenti significativi del suo impegno nel teatro, verso il quale lo spingeva la convinzione che l’opera lirica fosse il campo nel quale innestare le nuove esperienze della musica nazionale russa. Se l’abbozzo, perduto, di un giovanile Han d’Islande si rifaceva ancora a Victor Hugo (non ne usci nulla, perché nulla ne poteva uscire: l’autore aveva allora 17 anni), con il successivo Edipo ad Atene, di cui fu composto solo un coro, si entrava nel terreno della tragedia antica rivisitata dal drammaturgo russo V.A.Ozerov; la tappa successiva fu un primo avvicinamento a Gogol’ con il soggetto della Notte di San Giovanni, il cui materiale fu poi parzialmente utilizzato nel poema sinfonico Una notte sul monte Calvo, estrema propaggine di un tentativo di aggiornare, superato il sinfonismo puro, la musica a programma. Tutti questi tentativi appartengono per così dire alla preistoria di Musorgskij compositore: nel senso che in essi, fino a quel momento, non si erano ancora chiariti i presupposti su cui basare l’adesione all’opera nazionale russa.
Salammbô si colloca in una fase di passaggio in cui questi presupposti cominciano a chiarirsi. Già nell’autunno 1856 Musorgskij aveva conosciuto casualmente Aleksandr Borodin, piú vecchio di lui di sei anni (sedici contro ventidue), ed era entrato in un giro di frequentazioni che lo avevano messo in contatto con Dargomyžskij, Kjui, Balakirev e con lo storico dell’arte e della musica Vladimir Stasov. Decisivo fu soprattutto l’incontro con Balakirev, dal quale Musorgskij ricevette fin dal 1857 lezioni di composizione. Si costituì così il primo nucleo di quel circolo di cui avrebbe fatto parte anche Rimskij-Korsakov e che sarebbe passato alla storia come il Gruppo dei Cinque, secondo la posteriore, solenne investitura di Stasov.
Nel 1862 Balakirev, l’indiscusso animatore del gruppo, fondò a Pietroburgo una Scuola Musicale Libera e un’istituzione di concerti in opposizione al Conservatorio e alla Società Musicale Russa, entrambi diretti da Anton G. Rubinstejn con orientamenti filo-occidentali: la nuova tendenza nazionalistica trovava cosí un canale ufficiale attraverso il quale manifestarsi. Musorgskij aderì al circolo con entusiasmo ma rimase al suo interno in una posizione isolata (del resto è ormai ampiamente dimostrato che il Gruppo dei Cinque fu una libera unione, tutt’altro che priva di contrasti, fra personalità molto diverse). Ciò che contò fu però la presa di coscienza di una poetica sentita quasi come una missione; e questa avvenne col concorso di molti, per riflettersi anche su una scelta di vita che attirò il compositore in un vortice di passioni dalle quali non si sarebbe mai piú liberato. In un suo appunto autobiografico del 1871 si trova scritto: «1860: allenò il cervello. 1862: mise il cervello a posto, rifornendolo di utili cognizioni».
Ne è prova il fatto che proprio in quel frangente Musorgskij, entrato nel ‘63 come impiegato al servizio dello Stato, lasciò la famiglia trasferitasi in campagna e andò a vivere con alcuni amici in una «comune», attratto dal fervore che animava i giovani intellettuali pietroburghesi. I suoi compagni di vita non erano però musicisti, ma letterati: e ciò può illustrare il clima nel quale avvenne la lettura e si accese l’entusiasmo per un romanzo come Salammbô di Gustave Flaubert, apparso in traduzione russa a puntate sulla rivista «Annali patrii» nel 1863, a pochi mesi di distanza dall’uscita in Francia. Lo scandalo che aveva accompagnato Madame Bovary aveva fatto di Flaubert un beniamino dei giovani anticonformisti di tutta Europa, e a Pietroburgo la cultura francese godeva di speciale attenzione, anche come contraltare al diffuso germanesimo degli ambienti musicali accademici. Ciononostante può apparire sorprendente che il ventiquattrenne Musorgskij pensasse subito di ricavare un’opera da un argomento così lontano dalle sue corde, esotico e sfarzoso, tanto intriso di colore orientale quanto estetizzante e decorativo, difficilmente riducibile a libretto. Una spiegazione indiretta è però offerta dalla dettagliata recensione che Musorgskij inviò in una lettera a Balakirev del 10 giugno 1863 sulla Giuditta di Aleksandr Serov, opera che era stata appena rappresentata con grande successo e che aveva molti punti di contatto con la trama della Salammbô. Serov era un ammiratore di Wagner e un nemico della nuova musica russa: sicché si può ipotizzare che Musorgskij decidesse di cimentarsi sullo stesso terreno degli avversari per dimostrare che il trattamento di un soggetto affine poteva prescindere da «tutto l’armamentario alla Scribe- Halévy-Meyerbeer tirato disordinatamente in ballo da Serov», e non contraddire le esigenze di una drammaturgia musicale indirizzata in senso nazionale. Ed è probabile allora che proprio questa sfida alle convenzioni del grand-opéra lo attirasse in modo irresistibile, anche a rischio di far storcere il naso ai piú intransigenti sostenitori della diversità costituzionale (per scelta di argomenti anzitutto) dell’opera russa.
Nell’autunno del 1863, subito dopo la lettura del romanzo nella «comune» di Pietroburgo, Musorgskij decise di farne una grande opera in quattro atti e sette quadri, scrivendo lui stesso il testo e ispirandosi per i versi alla poesia russa contemporanea. In ottobre, verosimilmente dopo avere tracciato uno «schema» (lo riportiamo a parte), cominciò a stendere il libretto partendo dal primo quadro del quarto atto (il lamento di Mathô, condannato a morte e prigioniero nei sotterranei dell’Acropoli). Senza musicarlo, saltò subito al secondo quadro del secondo atto: la scena nel tempio di Tanit, nella quale Mathô rapisce lo zaimph, il velo sacro che protegge la città, custodito dalla sacerdotessa Salammbô. I1 15 dicembre questa scena era interamente composta ma non strumentata, se non per accenni (ossia, come Musorgskij era solito fare, con indicazioni parziali per la realizzazione della partitura).
Procedendo a sbalzi, evidentemente per fissare i momenti principali della vicenda, Musorgskij compose nell’anno successivo altre tre scene: i manoscritti recano le date del 23 luglio per la prima parte del primo quadro del terzo atto (il sacrificio nel tempio di Moloch, fino all’apparizione di Salammbô) e del 10 novembre per la sua conclusione, del 26 novembre per la composizione del primo quadro dell’ultimo atto, di cui già esisteva il testo. In mezzo, durante l’agosto, una pagina piú distesa si inserí tra questi grandiosi blocchi drammatici e musicali: la canzone d’amore cantata dal giovane mercenario delle isole Baleari (il baleario) durante il banchetto nei giardini di Amilcare (atto primo). Qui Musorgskij si avvicina allo stile lirico delle sue romanze da camera di quegli anni, quasi a voler decantare con una parentesi gentile la forte tensione del dramma.
Il 1865 portò un arresto totale nel lavoro all’opera: in quell’anno non ne fu scritta una sola nota. I motivi esterni che spiegano questa interruzione non mancano: in primavera la morte della madre, a cui Musorgskij era molto legato e verso cui provava un rimorso acuto dopo averla abbandonata per seguire la sua strada (un toccante pensiero di quella perdita sono i Ricordi dell’infanzia per pianoforte e la Ninna nanna in memoria della madre); riprese a bere smodatamente e in autunno fu colto da un attacco di delirium tremens provocato dall’abuso di alcool, con conseguente trasferimento nell’ appartamento del fratello maggiore Filaret. I tempi della «comune» erano finiti. Sono spiegazioni plausibili; anche se in quel periodo Musorgskij non smise mai del tutto di comporre, soprattutto liriche per canto e pianoforte. Non rinunciò però del tutto all’opera, se è vero che col miglioramento della salute ritornò a lavorarci all’inizio del 1866: 1’8 febbraio fu composto il coro femminile per il secondo quadro del quarto atto («le sacerdotesse consolano Salammbô e l’abbigliano con le vesti nuziali»), due mesi piú tardi fu la volta del Canto dei guerrieri libici per coro e pianoforte (atto primo), orchestrato il 17 giugno probabilmente in vista di una sperata esecuzione nei concerti della Scuola Musicale Libera di Balakirev (in questo senso potrebbe parlare il biglietto a lui indirizzato il 20 aprile 1866: «Caro Milij, fatemi sapere quando posso trovarvi a casa. Da parecchio tempo non ci siamo visti ed ho voglia di parlare con voi di molte cose e di mostrarvi una nuova cosetta [Canto di guerra dei Libici] della mia Salammbô, un coro maschile sul tema a voi noto con una variante à la géorgienne»). Questa esecuzione non ebbe luogo (al suo posto fu invece presentato il coro La disfatta di Sennacherib su testo di Byron, completato il 29 gennaio 1867); di modo che la seconda variante per coro e orchestra rimase l’ultimo frammento scritto per la Salammbô.
In tutto, dunque, Musorgskij musicò della Salammbô sei pezzi di diverse dimensioni, e di questi ne strumentò per intero solo due: il lamento di Mathô, ossia la prima scena presa in considerazione, e il Canto di guerra dei libici, ovvero l’ultima composta. È un po’ poco per consentire una messa in scena quale fu per esempio quella proposta dal San Carlo di Napoli nel 1981, con la regia di Jurij Ljubimov. Essa si basava sulla revisione del materiale esistente e sulla strumentazione completata dal direttore d’orchestra Zoltàn Peskó per l’esecuzione nei concerti pubblici della stagione sinfonica della Rai di Milano nel novembre 1980, di cui abbiamo anche la preziosa registrazione discografica; cui solo in tempi recentissimi, per iniziativa del Teatro Kirov di San Pietroburgo, si è aggiunta quella di Aleksandr Nagovitzin, ora presentata al Maggio. Una novità assoluta tenuta gelosamente in serbo come una sorpresa, al punto che neppure all’estensore di queste note è stato possibile verificare la partitura e dunque informare sul lavoro del revisore.
Musorgskij non ha lasciato scritto nulla sulle ragioni che lo indussero ad abbandonare la Salammbô. In un elenco delle proprie composizioni, redatto per Stasov e speditogli nell’agosto 1878, si limitò a indicare a parte il materiale rimasto come «Studi per l’opera Salammbô di Flaubert», datandoli 1864-65 (il che come abbiamo visto è inesatto). Nel corso del 1866 altri progetti lo interessarono, ma solo fugacemente: e si trattava comunque di progetti di altro genere, bordeggianti verso l’opera comica (un altro torso in questo campo sarebbe stato il primo atto di Il matrimonio di Gogol’, del 1868, interrotto infine per il Boris). L’unica testimonianza che ci rimane in proposito è indiretta e proviene dall’amico di gioventù Nikolaj Kompanejskij, che cosí la racconta in un articolo apparso a cinquant’anni dalla morte dell’autore: «Una volta chiesi a Modest Petrovič perché avesse abbandonato un soggetto tanto interessante. Mi guardò fissamente, poi scoppiò a ridere e, con un gesto noncurante della mano, rispose: ‘Sarebbe stato infruttuoso. Che bella Cartagine ne sarebbe risultata!’. Poi smise di ridere e prosegui in tono più serio: ‘Ci bastava l’Oriente di Giuditta. L’arte non è un gioco. I1 tempo è prezioso’». Frasi molto belle e chiare, quasi troppo per essere del tutto autentiche. Piú utile risulta la testimonianza di Rimskij-Korsakov nelle sue Memorie, peraltro assai posteriori e non precisissime sulle date: «Musorgskij era occupato a scrivere un’opera su un libretto tratto da Salammbô.Ogni tanto ne suonava qualche pezzo o da Balakirev o da Kjui. Questi frammenti riscuotevano la piú viva ammirazione per la bellezza dei temi, ma anche la più severa censura per il disordine e la stravaganza. Ricordo che Madame Kjui non riusciva a sopportare l’episodio della tempesta rumorosa e assurda». Da essa si ha comunque la conferma che gli amici (e signore non troppo tenere verso il misogino Musorgskij: l’episodio che non piaceva a Madame Kjui, la scena nel tempio di Moloch, è appunto la pagina più visionaria e originale del lavoro) nutrivano forti dubbi sulla realizzazione del progetto: non a caso Balakirev, che non smise mai di considerare Musorgskij un quasi idiota, aveva bocciato la «nuova cosetta» dell’amico apostrofandolo «strambo autore dei Lidi e dei Misolidi». E ciò può avere pesato sulla decisione del compositore di abbandonare l’impresa.
Quale interesse rivestono allora per noi le sei scene della Salammbô? Forse lo spunto dato dall’autore stesso, ulteriormente precisato, può essere d’aiuto: «studi per un’opera futura». Dove il senso della frase non sta tanto, o soltanto, nel fatto che alcuni frammenti furono utilizzati in luoghi particolarmente importanti del Boris (in modo riconoscibilissimo e specialmente impressionante il monologo di Mathô in attesa del supplizio) e altrove (il canto di guerra dei libici fu rielaborato nel coro Jesus Navin, o Josua su parole del Libro di Giosuè, 1874 e 1875), ma soprattutto nell’esperienza che sarebbe tornata utile in proiezione futura, nella scelta del tipo di opera da coltivare: confrontandosi non con altri che con se stesso. E ciò consente di affermare che la posizione raggiunta da Musorgskij nella storia dell’opera russa dell’Ottocento fu il risultato di un processo di maturazione e una conquista sempre piú cosciente e radicale.
Già nel modo di trattare l’argomento alcuni procedimenti sono istruttivi. Musorgskij non solo parti dalle scene centrali del romanzo, poco preoccupandosi di definire prima la cornice generale e ambientale, ma privilegiò soprattutto quelle in cui si presentasse un vivido contrasto tra i personaggi, gli individui e la massa, distinti già con chiarezza nella folla mutevole di popolo cartaginese, guerrieri libici, sacerdoti e sacerdotesse, donne, uomini e perfino bambini. Caratteristico è il modo in cui nelle tre grandi scene d’insieme (rispettivamente terza, quarta e sesta) i solisti e il coro s’intrecciano proseguendo però ognuno un proprio corso di pensieri: e le linee vocali si stagliano l’una contro l’altra come a rappresentare visioni complementari, dove le ragioni individuali si prolungano amplificate in quelle collettive. E si tratta sempre di momenti culminanti, sottratti però al procedere dell’azione: situazioni bloccate nelle quali si espande un canto che tende all’epico, all’ipnotico, al lirico, all’elegiaco, riverberandosi nella lamentazione su una sorte di cui non sappiamo i precedenti né le conseguenze, ma che sembra immodificabile, eternamente umana.
Altrettanto significativo è il fatto che la trama erotico-amorosa, e quella per cosí dire storico-politica (le lotte di potere tra i mercenari e i nobili cartaginesi in un paesaggio di rovine), siano lasciate sullo sfondo se non addirittura trascurate. Né traspare un’intenzione di approfondimento psicologico o di evoluzione nel carattere dei personaggi: Salammbô e Mathô non hanno spessore come individui, sono piuttosto figure destinate fin dal principio a essere schiacciate, e colte appunto sul limitare della fine: condizione nella quale tornano a confrontarsi con la folla in monumentali affreschi corali dove il destino dei singoli piú che contrapporsi si annulla in quello della massa. C’è già qui la definizione di un attrito drammatico che come scintilla esploderà nel Boris.
Ciò che invece manca nella Salammbô, a cementare questi elementi, è lo spirito propriamente russo, musicalmente incarnato dal canto popolare nazionale. Musorgskij evitò accuratamente di cadere nell’esotismo ponendosi il problema di quale linguaggio impiegare per un’opera ambientata a Cartagine nell’anno 241 avanti Cristo senza conoscerne le melodie (non per nulla aveva criticato Serov imputandogli di aver preso nella Giuditta «molti granchi che definirei anacronismi musicali»). Caduta, per ovvi motivi, la matrice del canto popolare o liturgico (ma la Canzone del baleario ha i tratti tipici della nostalgia di un’anima russa) Musorgskij optò per uno sfondo modale antico tanto vago quanto storicamente indefinito, neppur troppo orientaleggiante (se non nei due cori maschili e femminili) e non precisabile in termini sistematici (i Lidi e i Misolidi tirati in ballo da Balakirev non vanno presi alla lettera). Su questo le inflessioni del melos, i ritmi, le elaborazioni di un declamato-arioso specialmente flessibile ma sottratto al principio dello sviluppo tematico, emergono da giri armonici lontani e arcaici. Le tendenze del nazionalismo musicale russo spingevano verso la riscoperta di tradizioni piú antiche, non soltanto russe o slave, ma anche asiatiche e orientali, come dimostrano le continue incursioni in quei territori da parte di molti rappresentanti dello stesso Gruppo dei Cinque (e prima ancora di Glinka). Ma proprio Musorgskij si distinguerà per l’aderenza a un linguaggio non esotico ma realistico, autoctono, cadenzato sulla lingua madre parlata, non solo cantata; e in Salammbô veniva a mancare il fondamento di questa costruzione: l’humus della storia, o leggenda, nazionale russa. In effetti nell’ultimo pezzo composto, il coro di guerra dei libici, viene impiegata una «variante à la géorgienne» che è pure essa, se si vuole, un «anacronismo musicale»: e forse fu anche la coscienza di questa contraddizione a convincerlo a fermarsi. I due brani orchestrati, fra cui questo, sono tuttavia punti di riferimento della massima importanza: giacché mostrano una energia vitale, una ricchezza di colori e una varietà di soluzioni timbriche che, al di là del colore locale, sono veicoli di definizione drammatica, tinta dell’anima piú che rivestimento decorativo. Se da questi saggi si deve ricavare un’idea del suono di Musorgskij, essa contraddice l’immagine di una tavolozza scabra ed essenziale, tutta in bianco e nero.
L’ipotesi che Salammbô non sia nata con un piano organico ma come una serie di studi sul problema dell’opera, in una sfida nella quale all’iniziale fervore subentrò a poco a poco la riflessione, non deve essere scartata. E ciò cambierebbe il giudizio sulla sua incompiutezza e valorizzerebbe invece l’impiego del suo materiale in lavori successivi. Ma anche qui, piú che di figure musicali compiute, si tratta di incisi, di inflessioni del canto e di ritmi che denotano una situazione o uno stato d’animo, quasi cifra di un’espressione: cosí la frase d’amore che Mathô intona per Salammbô poteva corrispondere all’idea che Musorgskij aveva in astratto di una passione amorosa ardente, e come tale si ritrova, nel Boris, rivolta da Dmitrij a Marina. Le imprecazioni di Salammbô e del coro nella scena del furto del velo sono il prototipo di un furore scatenato, e in una situazione analoga non stupisce che Musorgskij le affidi alla folla in tumulto nella foresta di Kromy. Certo, le analogie tra il monologo di Mathô e quello di Boris, e soprattutto tra il motivo della condanna a morte dei sacerdoti e quello dei bojari che decretano la morte del falso Dmitri j, sono anche drammaturgicamente evidenti: ma rientrano anch’esse in una rappresentazione ideale di una situazione nella quale i personaggi sono in funzione di un’ idea di verità teatrale, in una situazione drammatica realisticamente osservata «in sé». Ed è in funzione di questa che Musorgskij scriveva.
Forse è eccessivo affermare che intenzionalmente Musorgskij pensò Salammbô con simili intenti; a conti fatti questo fu però il suo destino. Se si accetta tale ipotesi, ognuna delle sei scene va ascoltata non come un frammento di un’unità mancante ma come una piccola o grande unità compiuta e a sé stante, che estrapola e ritrae un momento statico del dramma: una serie di prove d’autore di un’idea di teatro che poi si materializzerà proprio in una drammaturgia decentrata, refrattaria al principio della continuità dell’azione e dell’evoluzione drammatica, abolendo perfino la norma di un inizio e di una conclusione. E da questo punto di vista non solo Salammbô, ma tutto il teatro di Musorgskij può essere considerato come la dilatazione di istanti sospesi in quadri che racchiudono eventi smisurati. Studi per un’opera futura, sempre, da cui anche la nostra nozione di compiutezza dell’opera d’arte viene modificata e concentrata tra un prima e un poi sfuggenti.
Valerj Gergev / Orchestra, Coro e Solisti del Teatro Marijinskij
Opera Kirov di San Pietroburgo
55° Maggio Musicale Fiorentino