Mito americano in musica

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Aaron Copland, morto a North Tarrytown a 90 anni, è stato la coscienza della musica statunitense per almeno due quarti abbondanti del nostro secolo. Di origine russa, ebreo, nato a Brooklyn nel 1900, si era formato alla musica a New York sotto la guida di maestri europei emigrati in America, e di quella tradizione aveva rapidamente assimilato il linguaggio e le forme, assicurandosi solide basi artigianali. In particolare era stato allievo, come anche Gershwin, di Rubin Goldmark, che ebbe un’influenza decisiva su di lui spingendolo a superare l’accademismo di stampo tedesco allora imperante per cercare nuove strade nei territori vergini della nuova musica americana.

Fondamentale per i suoi successivi sviluppi fu il viaggio di apprendistato che Copland intraprese all’inizio degli anni Venti in Europa. Scelse naturalmente Parigi, dove, alla scuola di Nadia Boulanger, si aprì decisamente alle tendenze antiromantiche del-la musica parigina e fu specialmente impressionato dalla personalità di Stravinskij. Il suo temperamento lo spingeva verso le avventure sperimentali delle avanguardie; ma, tornato in patria, seppe subito rendersi conto che lo stato della cultura musicale nel suo Paese richiedeva prima di tutto un lavoro di preparazione e di consolidamento delle ancor fragili fondamenta. Anche dal punto di vista istituzionale. E in questa direzione concentrò le sue forze, dedicandosi non soltanto alla composizione ma anche a molteplici attività organizzative: dalla istituzione, in collaborazione con il compositore Roger Sessions, di cicli di concerti per diffondere la conoscenza della musica americana, alla fondazione degli American Festival di musica contemporanea, a una continua presenza nel campo dell’insegnamento presso varie università.

Di pari passo con questo impegno concreto per la creazione e il rafforzamento di basi su cui si potesse sviluppare una cultura musicale di tendenza progressista, Copland venne affinando la propria spiccata personalità di compositore, che sempre più metteva in luce una precisa identità linguistica. Più che cercare l’integrazione di modelli diversi, subordinando il nuovo alla verifica di schemi in qualche misura legati alla tradizione colta della musica europea, anche di quella d’avanguardia, Copland agì in modo assai più radicale sforzandosi di mettere a punto uno stile tipicamente americano, con elementi attinti dal folclore e dal jazz. Così, se per esempio nelle Variazioni per pianoforte del 1930 l’uso percussivo dello strumento e l’organizzazione geometrica delle strutture ritmiche potevano richiamare ancora Bartòk e Stravinskij, con i lavori successivi Copland impiegò a fini costruttivi e insieme dimostrativi soprattutto ritmi jazzistici, blue notes e procedimenti armonici bimodali caratteristici del blues. In tal modo la musica americana di ispirazione popolare si emancipò senza perdere i suoi propri connotati e rese fertile il terreno alla ricerca delle più giovani generazioni.

La successiva evoluzione stilistica di Copland, sempre accompagnata da un cospicuo numero di lavori nei generi più diversi, dal teatro alla musica sinfonica e strumentale, con sconfinamenti nella musica «leggera», segue due direttive principali e complementari. La prima, più austera, mira a un pensiero compositivo astratto, per così dire concentrato sulla elaborazione puramente linguistica e formale, senz’altri fini che la realizzazione di idee inerenti alla materia sonora stessa. La seconda, che rappresenta invece un radicale ribaltamento estetico ed è motivata dal desiderio di comunicare con un pubblico più vasto, adotta una scrittura di presa immediata, ma mai plateale o volgare, per quanto sovente eclettica o semplificata. E proprio dedicandosi a generi più popolari quali il balletto (Billy the Kid, 1938; Rodeo, 1942; Appalachian Spring, 1944), o alla composizione di musiche per la radio e per il cinema (Of Mice and Men, 1939; Our Town, 1940; e soprattutto The Red Pony, 1948), Copland raggiunse l’apice della sua fama non solo in patria: del mito americano rappresentando insieme la celebrazione e la bonaria canzonatura.

Dalla fine degli anni Sessanta, dopo aver dato alcuni piccoli, estremi capolavori come i 12 Poems by Emily Dickinson per voce e pianoforte, Copland si era ritirato anche dalla composizione, per dedicarsi all’attività di scrittore. Di questa il pubblico italiano conosce un pregevole saggio della fine degli anni Trenta, Come ascoltare la musica, che per molti costituì, quando apparve tradotto in italiano, un primo approccio alla riflessione sulla musica. Ma è con la sua attività di creatore che Copland ha lasciato traccia nella musica del nostro secolo, una traccia ancora tutta da seguire e forse scoprire. Esemplare, non solo per capire aspetti importanti della cultura musicale di questo secolo.

da “”Il Giornale””

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