Mirando alla chiarezza: Wolfgang Sawallisch

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Wolfgang Sawallisch è un direttore molto amato dal pubblico italiano, e da quello scaligero in particolare. Alla Scala esordì con un concerto nel 1957 (la Sinfonia «di Parigi» K. 297 di Mozart, il Concerto per arpa di Mario Zafred, la Settima di Beethoven), con un’opera nel 1965 (Lohengrin di Wagner), e da allora le sue presenze in Italia e a Milano sono state costanti. A lui sono legate molte esecuzioni di quasi tutto il maggiore repertorio sinfonico e teatrale tedesco, da Mozart a Richard Strauss, e in particolare a Wagner. Per proprietà stilistica e sensibilità musicale, per naturalezza e profondità in Sawallisch si ha sempre l’impressione che la partitura venga resa nei suoi valori essenziali, nel modo più diretto e comunicativo, spiegata nota per nota senza che per questo si perda mai di vista l’unità dell’insieme: e ciò lo rende un Maestro molto apprezzato anche dalle orchestre per l’equilibrio e l’autenticità.

Da dove nasce questa capacità di fare dell’esecuzione in quanto tale anche un atto eminentemente interpretativo? In primo luogo da una conoscenza intima del repertorio e da una preparazione che affonda le sue radici nella tradizione musicale tedesca. Sawallisch è oggi uno degli ultimi eredi di questa tradizione, un baluardo che resiste contro la progressiva commercializzazione della musica. La sua carriera si è sviluppata passo dopo passo in stretta simbiosi con i teatri e con le orchestre che dirigeva stabilmente.

Da maestro sostituto e poi Kapellmeister ad Augusta negli anni del dopoguerra fino alla più che ventennale esperienza di Generalmusikdirektor all’Opera di Stato Bavarese di Monaco, la città in cui è nato nel 1923, Sawallisch ha assolto i suoi impegni anteponendo a tutto le ragioni della musica, svolgendo un servizio anche umile per garantirne la qualità e la serietà. Solo chi sappia che cosa significhi lavorare quotidianamente in un teatro di repertorio, o essere a capo di un’orchestra per lungo tempo con piena responsabilità artistica, può apprezzare interamente ciò che Sawallisch è riuscito a fare e a ottenere: vivere e far vivere la musica come un dono da coltivare con fedeltà e serenità, da offrire con devozione, senza curarsi di apparizioni e di proclami, di provocazioni e pubblicità.

Questo stile di vita caratterizza anche l’uomo. Dietro l’irreprensibile signorilità del suo aspetto professionale, quasi da affabile uomo d’affari che si presenta sempre in giacca e cravatta, che tiene le distanze con gentilezza e incute qualche soggezione (nessuno ricorda di avergli sentito alzare la voce in un’occasione ufficiale, o perdere la pazienza e sbattere una porta), si nasconde un’indole aperta al rapporto con gli altri, istintivamente fiduciosa e cameratesca, ma saldissima nel far valere il principio della lealtà e del rispetto reciproco. Se il suo motto preferito, come disse una volta, è «Vivi e lascia vivere», la traduzione di questo motto è cercare di dare il massimo in ogni circostanza senza imporre il proprio punto di vista a ogni costo, ma nello stesso tempo pretendendo che il confronto segua le regole di una fondamentale onestà e distinzione di ruoli.

Nella sfera privata Sawallisch è un uomo semplice, concreto, che non ha molto tempo da dedicare a se stesso, e quel tempo utilizza per la famiglia, gli amici, la buona tavola, le letture; semmai secondando una passione quasi sfrenata per il bricolage, di cui la sua splendida villa di Grassau reca tracce vistose. Ma anche questa tranquillità, questa concretezza gli provengono dalla musica, dal fatto cioè che esista la musica: una scelta di vita che è anche un modo di essere.

Del resto, il ritratto più completo di Sawallisch è quello che lui stesso ha dettato nella sua autobiografia, pubblicata anche in italiano dalla Passigli Editori di Firenze con un titolo che dice già tutto: La mia vita con la musica. Non meno significativo il sottotitolo: Nell’interesse della chiarezza. Non è sbagliato vedere in esso – come nella rivendicazione che Sawallisch fa della figura del Kapellmeister, con cui si identifica proprio in nome di quella tradizione dalla quale anch’egli proviene – un piccolo intento polemico: verso l’atto interpretativo, per esempio, inteso da molti come un campo aperto alle ingerenze e ai personalismi di colui che per Sawallisch è invece solo un ricreatore, un realizzatore delle intenzioni dell’autore; ma anche verso l’immagine divistica dell’artista, e del direttore d’orchestra in particolare, che Sawallisch rifiuta proprio nell’interesse della chiarezza. Ogni indebita sovrapposizione dell’interprete, anche nei suoi atteggiamenti pubblici, alla verità della musica, intorbida questa chiarezza. Perché chiarezza significa anche fare della musica lo scopo della vita, e dunque concentrare ogni sforzo nel rendere evidente ciò che la musica racchiude nel suo linguaggio. Che Sawallisch sia diventato un personaggio anche senza pose e compromessi (ad esempio non ha mai fatto una dichiarazione polemica o addotto una scusa furbesca per nascondere un’impresa non riuscita) è la dimostrazione migliore che alla fine certi valori, anche se inattuali, pagano.

Certo, per riuscirci bisogna avere argomenti inconfutabili. Quelli di Sawallisch lo sono. Anzitutto una natura musicale eccezionale, con un talento istintivo enorme e un orecchio infallibile esercitati già nello studio (il pianoforte come mezzo di rapporto diretto, immediato con la realtà sonora: Sawallisch, si sa, è un eccellente pianista) e affinati negli anni importantissimi della «gavetta».

Su questa base è nato il direttore d’orchestra: a partire dal gesto che sa infondere sicurezza e stimolare la ricerca della più efficace resa espressiva. Il gioco che si viene a creare tra la mano destra che, fateci caso, non perde mai di vista il tempo fondamentale e ne articola le fluttuazioni con movimenti illuminanti, e la sinistra, più analitica e tesa a far risaltare le parti emergenti e il loro intreccio, è già di per sé un modello di chiarezza e di perspicacia.

Ma quel che più conta è la sua capacità di incidere sull’orchestra, di fonderla con i cantanti quando si tratti di un’opera, di differenziare i piani sonori facendo emergere ciò che è importante nel fraseggio di più ampio respiro, per così dire la linea-guida. Sawallisch ci porta per mano alla comìprensione di ciò che stiamo ascoltando perché nel suo orecchio interiore ne possiede l’esatta percezione: e, ciò che più conta, è in grado di realizzarla all’istante o con il gesto, con lo sguardo e con la forza della sua presenza, senza bisogno di andare oltre i fatti. Il suo carisma si basa su questa capacità realizzativa che parte dalla musica e ritorna alla musica. Nelle prove, per esempio, è molto parco di parole, tutt’al più se ne serve per allentare la tensione, o per richiedere una maggiore concentrazione: cioè una disposizione giusta verso ciò che in quel momento sta provando, o verso un problema che si ponga. Il suo lavoro consiste nel trovare la forma più adeguata per comunicare le sue intenzioni: ed è allora anche il suo gesto si trasforma, un tempo viene modificato, un passaggio è studiato analiticamente, per ritrovare poi la sintesi nel suo aggiustamento. Il tutto mira  a realizzare il massimo oggettivamente possibile in determinate condizioni, porre le premesse affinché poi, nell’esecuzione, il risultato migliori.

Come è proprio dei grandi direttori( fenomeno quasi medianico, difficile spiegare), Sawallisch intuisce con frazione di secondo in anticipo sugli altri ciò che avverrà: ed è straordinario constatare come anche il suo gesto allora cambi per assecondare, o indirizzare, che sta per accadere. I professori d’ chestra, i cantanti lo amano perché sanno che là sotto, in buca, o là sopra, sul podio c’è uno che non solo conosce ogni dettaglio della partitura ma si sforza anche aiutarli affinché il miracolo avvenga.

Questo formidabile senso pratico ha generato qualche equivoco sul Sawallisch interprete. A qualcuno è parso ciò fosse rinuncia a dare all’interpretazione l’impronta di una decisa personalità. A noi pare che la vera personalità stia proprio in questa attitudine, cementata dall’esperienza e dal sapere, a considerare la musica una forma vivente di emozioni e di pensieri, una sfida che ogni volta si affronta in modo diverso e positivo. La grandezza di Sawallisch si rivela allorché riesce a coordinare la sua forma ideale di interpretazione con la realtà viva dell’esecuzione, a farci capire la verità della musica così come essa è, in una perfetta adesione tra autore e interprete. Allora possiamo provare la grande gioia spirituale che dà la musica, ed essergli infinitamente grati per avercene fatto partecipi.

La Rivista Illustrata del Museo Teatrale alla Scala, n. 13, Inverno 1991/92

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