Ma non è una stazione
Fra Diavolo alla Scala non è stato un successo. Certo, non è stato neppure un insuccesso. Alla sera della prima ci sono state proteste, fischi e buh, secondo il deplorevole costume di molte prime scaligere (dove l’aspetto deplorevole sta nel fatto che si comincia a rumoreggiare, a disturbare già durante la rappresentazione, creando nervosismo e inquietudine). Alle repliche il clima era invece molto disteso, quasi rilassato, insomma di ordinaria amministrazione: che alla Scala non si vorrebbe e dovrebbe vedere e sentire mai. Il commento più ricorrente fu: ma perché hanno scelto quest’opera? Era davvero necessario? Il problema in casi come questi è che mancano i termini di riferimento: la comprensione di un’opera poco nota, di cui magari si ha un’idea positiva in astratto, dipende in fortissima misura dal modo in cui è presentata. Tutto si decide sul filo della capacità di metterne alla luce i valori, di nasconderne le debolezze, di trovare insomma quell’equilibrio fra importanza storica e attualità artistica che prodotti di un’epoca lontana, con radici in una prassi teatrale superata dagli eventi, recano con sé. Se non si trova questo clima, questa sensibilità, questa chiave d’entrata, sarà facile scambiare i pregi per difetti, l’individualità per convenzione, e credere che perfezione di un modo antico di concepire il teatro, il profumo delicato della tenerezza, l’opera sia debole in se stessa. Non è però il caso di Fra Diavolo. Opera che possiede la perfezione di un modo antico di concepire il teatro, il profumo delicato della tenerezza, la brillantezza delle invenzioni spontanee, la fertile instabilità di un momento storico di passaggio, oltretutto stratificato nelle diverse versioni che dal modello francese si originarono successivamente. E che è rappresentativa di un autore, Auber, forse schiacciato dai giganti che lo attorniarono, ma provvisto di un carattere e di una identità riconoscibili, di una freschezza e di una arguzia che richiedono solo la disponibilità a farsi coinvolgere, a entrare nel meccanismo teatrale e musicale dimenticando altri confronti, siano essi l’immediatezza dell’opera comica rossiniana da un lato o la tensione del melodramma, del dramma musicale dall’altro. La Scala ha dunque fatto benissimo a riproporlo, ma non ha colto l’occasione per farci capire fino in fondo chi fosse Auber e perché Fra Diavolo potesse avere l’autorità per ritagliarsi uno spazio d’onore nel nostro cuore.
A deludere è stato in primo luogo Jérôme Savary, il regista. Non tanto nel modo in cui ha fatto muovere i personaggi o governato l’azione, ma nell’idea di base dello spettacolo. Tutti sanno che Fra Diavolo è diventato un film famoso, forse più famoso per la presenza marginale di Stanlio e O11io che per la sua intrinseca qualità, comunque molto diverso dall’opera di Auber. Il primo ragionamento che verrebbe da fare è questo: tutti conoscono il film che ne è stato ricavato, dunque si tratta semmai di mostrare che cosa sia l’opera, prescindendo da quello. Invece Savary, dopo aver candidamente affermato che per lui Auber è soprattutto una stazione della metropolitana di Parigi, ha pensato: siccome tutti conoscono il film, e nessuno – lui compreso – l’opera, fingiamo che questa si svolga mentre si gira l’altro. Di qui la cornice: una troupe cinematografica invade il palcoscenico e riprende l’azione dell’opera immaginando che sia quella del film. Non serve che poi l’azione segua il suo corso, che uno sciopero o una pausa prolungata allontani gli intrusi dal set improvvisato; Savary non sembra avere un’idea di come si giri un film, quelle discinte segretarie di produzione in lamé sono folklore, mentre avrebbe qualcosa da dire come regista teatrale: solo che l’atmosfera è rovinata, e soprattutto non si capisce più che cosa diavolo stia accadendo.
La mancanza di un ritmo teatrale era il difetto che snaturava l’arco drammatico, esile ma non sfilacciato, dell’opera. E incideva anche sui cantanti, anche sul direttore. Bruno Campanella stentava a trovare la misura dei tempi, lo scatto e i personaggi, dando l’impressione di non appassionarsi alla partitura, di non avere né certezze né dubbi, ma solo una professionale predisposizione a far quadrare i conti. E l’orchestra non lo aiutava come concentrazione, forse provata dalle fatiche del Parsifal e di Arabella. Di conseguenza veniva a mancare il gioco di squadra dei cantanti, fondamentale in un’opera d’incastri; e non si potevano apprezzare adeguatamente, se non a sprazzi, neppure le doti dei singoli, che pure erano splendide nella Serra e notevoli in Sabbatini, Corbelli e nella Senn, più che interessanti negli altri (fra l’altro quasi tutti elementi giovani e italiani, bravi, per la soddisfazione non solo dei sindacati ma anche nostra). La precisazione dell’obiettivo, ecco ciò che mancava: la chiarezza di un progetto in cui avventurarsi fino in fondo, con convinzione motivata ed entusiasmo ad oltranza. E l’orgoglio di cui la Scala è capace, e che ne ha segnato ultimamente alcune bellissime realizzazioni, a non aver accompagnato un’opera che proprio l’orgoglio e l’intelligenza avevano fatto mettere in cartellone.
Musica Viva, n.3 – anno XVI