Milano. Arabella

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Aveva ragione Beauvais

Avremmo giurato su questa Arabella, che alla Scala approdava dopo oltre vent’anni dalla prima e ultima apparizione, e addirittura come novità assoluta in lingua originale (quasi sessant’anni dopo la sua creazione!). E avremmo giurato con cognizione di causa, per averla vista e rivista nello stesso allestimento, con lo stesso direttore e quasi con la stessa compagnia di canto a Monaco, dove da quindici anni (la produzione risale infatti al 1977) è uno degli spettacoli di punta nel repertorio della Staatsoper sotto la direzione di Wolfgang Sawallisch. Ci sbagliavamo, o alla Scala qualcosa non ha funzionato? E’ sufficiente assicurare che ciò che abbiamo ritrovato alla Scala era solo la fotocopia sbiadita di un originale dai colori brillanti, finemente tratteggiato e ancor meglio impaginato, di una vivacità esaltante? E di chi allora la colpa: della Scala che non ha saputo ricrearne l’incanto, dell’allestimento stesso incapace di rivivere al di fuori del suo ambiente naturale, o semplicemente di chi aveva colto e promesso delizie che poi non ci sono state, forse esagerando?

Facile la risposa alla prima domanda. La Scala non ha nessuna colpa. Ha realizzato in modo puntuale, da grande teatro, una scenografia molto complessa, scontrandosi semmai con alcuni limiti oggettivi del suo palcoscenico, il quale, privo com’è di attrezzature adeguate, non poteva per esempio consentire il rapido cambio di scena tra secondo e terzo atto, in modo da legare i due quadri mentre in orchestra risuona l’appassionato preludio (o interludio?) orchestrale che ci fa supporre, proseguendo l’equivoco, un incontro amoroso tra Arabella e Matteo; mentre Arabella riappare subito dopo negli abiti della festa, e l’interesse dell’intreccio viene a quel punto di colpo rilanciato, anzi ravvivato nello spirito più genuino della commedia. Se per riprenderne le fila dobbiamo aspettare una mezz’ora circum circa, la tensione inevitabilmente si allenta e qualcuno può essere anche tentato, come alla Scala vistosamente accadde, di abbandonare anzitempo. (Si dirà che Arabella è in tre atti: ma solo per rispetto a Hofmannsthal, morto improvvisamente durante il lavoro, Strauss non intervenne sull’ articolazione del libretto, mentre accettò entusiasticamente la proposta di Clemens Krauss di unire secondo e terz’atto. E comunque a Monaco questa soluzione, senza tagli, veniva adottata e contribuiva a dare alla regia un ritmo teatrale più serrato).

Poi si viene alla seconda risposta. La quale è di portata più ampia. La politica degli scambi fra i teatri è utile non solo economicamente ma anche artisticamente. Tuttavia comporta qualche rischio; prima di tutto il rischio dell’appiattimento. Per funzionare occorre che una messa in scena venga concepita unitariamente per le caratteristiche dei diversi teatri che l’ospiteranno, e già questo è un limite, perché ogni sala, ogni teatro ha il suo clima, la sua peculiarità. Nel caso in cui un allestimento venga trasferito senza preventivi accorgimenti da un luogo all’altro, le zone di pericolo e di rigetto aumentano. La regia di Strehler del Simon Boccanegra avrebbe fatto impressione dovunque, ma fuori della Scala non era mai la stessa: perfino con gli stessi cantanti e lo stesso direttore. Non c’è dunque da sorprendersi che anche quest’Arabella, così connaturata all’ambiente dell’Opera di Monaco, abbia sofferto nella trasposizione.

Con un’aggravante: che la regia non era quella originale di Peter Beauvais (forse sarà utile sapere che Beauvais, fine regista di solido stampo antico, alla Hartmann e alla Rennert per intenderci, ha rotto con Monaco anni fa proprio perché non riteneva esportabile altrove questo spettacolo), bensì del direttore di scena del teatro, Helmut Lehberger, come correttamente informava la locandina. Ora, si sa come vanno queste cose. Nelle riprese un direttore di scena (e Lehberger è ottimo professionista) deve garantire l’insieme, senza avere l’autorità di un regista. Intendo dire che un certo equilibrio scenico non si ripeterà, che le dimensioni saranno altre (ecco spiegato il mistero di quelle scene bellissime di Jürgen Rose ridotte a proporzioni innaturali, con luci modificate), altro il contesto, si tende a ritoccare, a sottolineare, a caricare. E si fa peggio, non meglio. Magari si pensa anche che un pubblico per il quale Arabella non è tradizione intimissima come a Monaco (dove Fiakermilli vale il paggio Oscar o Cherubino e la melodia dell’””Uomo giusto”” è quel che è per noi “”Che gelida manina””) abbia bisogno di queste sottolineature. E si esagera, ora appiattendo ora cadendo nel didascalico. È un fatto anche psicologico: si crede ad esempio che per far capire a chi non lo sa da sempre che cosa rappresentasse il Ballo dei Fiaccherai nella Vienna carnevalesca di ieri rivisitata nostalgicamente da Strauss si debba forzare le tinte, marcare i gesti, astrarre dal particolare. E allora giù con pacche sulle spalle e sul sedere, bottiglie di champagne aperte a spruzzo come nelle premiazioni dei gran premi di Formula Uno, stelle filanti e coriandoli e fiumi di birra per dare l’idea dell’animazione, della festa e del casino. Ma voi direte, e a Monaco non c’erano? Sì che c’erano, ma avevano un’altra misura, un’altra verità, un’altra eleganza.

Non erano evidenziate. Due esempi per spiegare meglio. Alla fine Mandryka deve bere un bicchiere d’acqua pura offertogli da Arabella in segno di conciliazione e di fedeltà eterna (e già andiamo male se uno non sa tutto il significato di quell’usanza, la sua storia nell’opera eccetera). Lo vuota e poi spezza il bicchiere; il che vuoi dire che accetta questo pegno simbolico (nessuno mai più dovrà bere da quel bicchiere, vulgo Arabella non sarà mai d’altri uomini). Ora, che fa qui Bernd Weikl lasciato a se stesso, buon cantante ma un po’ volgarotto? Intanto beve solo un sorso (sgarro gravissimo, che se fossimo in Sicilia ci sarebbe la lupara, ma in questo caso anche nella Vienna mitteleuropea); poi, evidentemente conscio che la maggioranza del pubblico tanto le finezze non le capisce, lancia melodrammaticamente il bicchiere mezzo pieno contro la parete con una foga insensata (e pensate che lui, il buono sloveno, dovrebbe vedere in quel gesto composto il miracolo della sua vita, la più sognante realizzazione dei suoi desideri). Col risultato che uno si chiede: ma che fa quel matto, ora gioca a tirassegno pure col servizio dell’albergo? (Se invece un altro sa la storia, vorrebbe solo gridare: “”per favore, perché tutte queste pagliacciate?””). E non è finita, giacché qui accade l’irreparabile. Arabella esce, Mandryka rimane solo. Ripensa all’accaduto, e c’è, nella musica, un’ombra di malinconia (i brividi corrono per la schiena mentre ci inchiniamo al genio teatrale di Strauss: a riunificazione avvenuta, dopo la scoperta dell’amore e la promessa di fedeltà, già una separazione e una nuova attesa, che idea magnifica per un regista che sapesse intendere il teatro e la musica, o, forse basterebbe, la vita! Per ulteriori ragguagli leggere la fine del saggio di Quirino Principe sul programma di sala). Che fa invece qui il sempre più spaesato Weikl? Si abbandona, mentre il sipario si chiude lentamente sulla più fenomenale ambiguità della favola, a gesti inconsulti di gioia, del tutto simili a quelli, ahimé sempre più rari, di Totò Schillaci quando segna un gol (braccia levate e pugni al cielo). Come a voler dire: o spettatore che non sai un’acca d tedesco, se ancora non ti se addormentato sappi che ho vinto io, io quella ora me la sposo, altro che bicchieri d’acqua! Niente di tutto questo voleva Beauvais: con lui, è vero, c’era in origine Fischer-Dieskau, a cui bastava un aggrottar di ciglia, un sorriso o una mano stesa per far correre le più sottili emozioni, e l’ultima scena era un capolavoro di cose accennate e non dette. Ma soprattutto non lo volevano né Hofmannsthal né Strauss né il buon gusto.

Se Arabella non ha fatto sul pubblico l’impressione che dovrebbe fare anche teatralmente, è perché una regia efficace, limpida, è stata snaturata dal passar del tempo e dei luoghi, diventando né carne né pesce. Non sempre, sia chiaro, ma nei punti decisivi sí. E ciò, in un’opera dove commedia e musica si tendono la mano in un legame profondo, intimo di fratellanza, ha pesato anche sulla esecuzione. Che solo Felicity Lott, l’unica estranea alla compagnia di canto importata da Monaco, abbia cercato una sua misura e una sua nobilità espressiva, classica, e l’abbia trovata sia scenicamente che vocalmente, sembra la conferma logica dell’assunto. Estensibile, invertendo i termini, anche a Sawallisch, che si è attestato su altissimi livelli di efficienza, senza però quell’estro e quell’abbandono che ne fanno, di questa partitura sontuosa, interprete sommo, irraggiungibile oggi. Il fatto è curioso. A Monaco Sawallisch raggiunge questo stato di grazia nella “”normalità”” della gestione del repertorio; a Milano, in un’occasione eccezionale, con un’opera che ama come poche altre, si è bloccato prima dell’ ultimo stadio. Sarebbe ingeneroso incolpare l’orchestra, un’orchestra che oggi è di sicuro livello mondiale, di questo blocco: ma certo raggiungere quella naturalezza e quella leggerezza, quel brio e quello slancio che in questa partitura sono le scintille che accendono il gioco e il rischio, la sottigliezza e l’estasi, non dipende dalla buona volontà e dal lavoro serio, ma da una lunga, diuturna consuetudine e affinità. E la differenza si avvertiva proprio in quell’esser sempre lì lì per prendere il volo e poi esitare, senza decidersi a puntare oltre i limiti dell’orizzonte.

Una postilla. La Scala ha la sua storia e il suo prestigio, e sembra che questi non s’accordino con l’introduzione del sistema di proiezione simultanea del libretto mediante sopratitoli. Se il prestigio vuol essere solo di facciata (ma non lo crediamo), niente da aggiungere e da illuminare. Se invece il prestigio si valuta anche dalla qualità del servizio reso al pubblico, ebbene, per opere come Arabella (cioè commedie in cui il dialogo, le battute sono fondamentali) i sopratitoli di cui la Scala saprebbe certo dare una versione esemplare, oggi che i sistemi sono già perfetti offrirebbero vantaggi addirittura sensazionali. Cioè semplicemente utili, reali, concreti, per far seguire il testo a chi non sa la lingua e ricordarlo anche a chi già sa le parole, nell’immediatezza dell’ascolto e dell’azione. Insomma per partecipare meglio allo spettacolo, e goderselo fino in fondo. Un esempio. Nel terzo atto, quando la girandola degli equivoci e dei colpi di scena si è esaurita, i clienti dell’albergo che hanno assistito a tutta quella baraonda commentano, con mormorio d’indescrivibile umorismo: “”Wir gehen schlafen. Jetzt passiert nichts mehr! “”. Che vuoi dire, scusate la pedanteria: “”Andiamo a dormire. Tanto qui non succede più nulla!””. E’ una battuta sublime, degna dell’ironia dello Strauss più grande e più impagabile. In Germania non c’è teatro in cui si dia Arabella nel quale a quel punto la gente non rida di gusto. E una reazione spontanea, che deve avvenire lì per lì, in quell’attimo e in quella situazione. E un momento che dà gioia alla vita. Si potrebbe andare all’Arabella solo per rivivere quell’istante, ed essere felici per ore. Mi sono scoperto a ridere, alla Scala, come se fosse la prima volta. La signora che stava accanto mi ha fulminato con lo sguardo. Sicuramente avrà creduto che pensassi ad altro, che profanassi la sua seriosa concentrazione. Non sapeva cosa si perdeva, la poverina. Ecco a che cosa potrebbero servire i sopratitoli.

Musica Viva, n.3 – anno XVI

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