Michelangeli, tormento ed estasi

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Il grande pianista a Monaco in un concerto annunciato all’ultima ora

Uno Schumann trasfigurato rinnova il sodalizio con Celibidache

Il Concerto in la minore di Schumann si apre con un gesto celeberrimo, una strappata dell’orchestra a cui il pianoforte solo risponde con una cascata di accordi cromaticamente arroventati: il ritmo è icastico e la dinamica bloccata, drammaticamente, sullo sforzando. Una cadenza afferma la tonalità d’impianto e da essa si origina un episodio di legni e corni, cantabile ed espressivo, subito ripreso dal pianoforte: solo dopo questa doppia esposizione alternata comincia il dialogo vero e proprio. Sono in tutto diciotto battute, tra le piú fenomenali della storia della musica. Con Arturo Benedetti Michelangeli e Sergiu Celibidache queste diciotto battute divengono una prova dell’acqua e del fuoco, come in un rito iniziatico: qualcosa che costringe a guardare nel fondo dell’anima.

Che fa Michelangeli di quella cascata iniziale? Semplicemente una voragine aperta sull’abisso, dove sarà dolce e insieme terribile cadere. Ma a poco a poco, senza fretta, affinché tutto si compia con discernimento. C’è per contrasto consolazione nel tema cantabile che Schumann definisce «affettuoso»? No, non c’è. È piuttosto distaccata sospensione, ironia che sinistramente tende al sorriso macabro. Eppure mai si era udita prima tanta tenera malinconia in quella depurazione del canto, nella spettrale evocazione di memorie disperatamente affettuose. Si intuisce che il percorso del pezzo sarà ribaltato da Michelangeli: ma fino a che punto? Il primo movimento è per lui quasi una negazione antiromantica, fantasmagorica affabulazione, dove il tormento, l’ansia di Schumann si elevano, piú che a emblema di un’epoca, a visione assoluta di equilibri tanto ricercati quanto precari. Il pianoforte scolpisce e cesella — prima l’Andante espressivo, poi la cadenza — nell’assenza totale di canto; per risolversi, nel secondo movimento, l’Intermezzo lirico, addirittura in gelo, terrore, incubo. Dimostrativamente, anche: allorché i violoncelli attaccano la loro ampia frase cantabile, Michelangeli li fulmina con lo sguardo, e oppone una sua privatissima riflessione sulla bellezza della frammentarietà, che nella magia dei timbri, nella scomposizione e ricomposizione del mosaico, nell’atmosfera rarefatta dei suoni puri trasfigurati in poesia senza tempo e spazio abbacina e mette i brividi. Ma non è ancora tutto. Nel corso del terzo movimento, inopinatamente, Michelangeli inizia a rallentare, e decanta ciò che fino a quel momento aveva accompagnato verso il fondo dell’abisso: recuperando, ma solo alla fine, perfino l’immediatezza dell’espressione piú ingenua e vera, quasi familiare. Se ricomincia la salita, è troppo tardi per rallegrarsene. Come farlo quando senti il soffio della morte che ti alita sul collo?

Tornavano, Michelangeli, e Celibidache, a suonare insieme alla Filarmonica di Monaco in un concerto annunciato all’ultima ora, sorprendentemente. Scegliendo questo Schumann rinnovellavano antichi sodalizi: una solenne fedeltà a un’idea di grandezza. Di cui Celibidache costituisce oggi un modello unico.

da “”Il Giornale””

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