Meyerbeer, inquieto sperimentatore a caccia di romantici conflitti

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Se gli anniversari debbono o possono servire a richiamare l’attenzione e a far riflettere su autori del passato più o meno dimenticati, ebbene, non erano certo Mozart e Prokof’ev i nomi su cui puntare quest’anno, ma Giacomo Meyerbeer, nato il 5 settembre di duecento anni fa. Compositore la cui grandezza continua a essere misconosciuta, le cui opere sono ignorate nei repertori dei grandi teatri, benché la storia del teatro musicale dell’Ottocento, e dunque la sua conoscenza, non possano prescindere dalla sua presenza.

Meyerbeer non fu soltanto uno dei protagonisti di questa storia, ma un punto di riferimento senza il quale non è possibile capire, direttamente e indirettamente, l’evoluzione dell’opera italiana, francese e tedesca da Rossini a Verdi e Wagner, dal melodramma al grand-opéra, al dramma musicale.

Jakob Liebmann Béer, questo era il suo vero nome, era nato in una famiglia agiata di ebrei tedeschi con forti ambizioni intellettuali. Fu per volere del nonno materno, che a questa condizione lo lasciò erede dei suoi averi, che antepose il Meyer al suo cognome, fondendolo con il Béer; italianizzando in seguito il nome sotto la spinta dell’entusiasmo per il melodramma, e per Rossini in particolare.

Una vocazione cosmopolita lo animava già prima che si dedicasse attivamente al teatro; e del resto questo tratto proveniva anche dalle esperienze compiute durante la sua formazione, tutt’altro che univoche: da un allievo di Clementi, e poi da Clementi stesso, aveva ricevuto la prima educazione musicale, per perfezionarsi poi con Zelter e con l’abate Vogler, assimilando così tradizioni diverse, che avrebbero trovato nella passione per il teatro il modo di manifestarsi e di realizzarsi. Fin da giovane Meyerbeer viaggiò molto, soprattutto in Italia e in Francia. La mancanza di preoccupazioni finanziarie gli consentiva di non dover bruciare le tappe, di conoscere luoghi e artisti diversi, e di lavorare con calma, lentamente, senza l’assillo del successo a ogni costo.

E il successo puntualmente lo colse alla prima occasione importante, con Robert le diable, un grand-opéra in cinque atti rappresentato a Parigi nel 1831: a quel tempo Meyerbeer aveva già alle spalle almeno una quindicina di lavori teatrali, tra Singspiele e melodrammi. Determinante fu l’incontro con il librettista Eugène Scribe, che da allora in poi rimase il suo collaboratore preferito ed ebbe grande parte nella definizione di uno stile teatrale basato sui contrasti più che sulla sintesi: con quest’opera Meyerbeer imboccò una strada che non avrebbe più abbandonato nei suoi lavori di maggiori proporzioni, e che avrebbe anzi proseguito con sempre maggiore convinzione e consapevolezza.

Ne danno testimonianza opere come Les Huguenots (1836), il suo capolavoro, e Le prophète (1849), fino a quell’Africaine nella quale sono racchiusi quasi trent’anni di lavoro e che, benché virtualmente compiuta, Meyerbeer non riuscì a portare sulla scena prima della sua morte, avvenuta a Parigi il 2 maggio 1864.

Se Parigi fu lo scenario in cui si concretò l’affermazione di Meyerbeer, tanto da sembrare il segno di un’affinità elettiva con quel mondo e con le sue convenzioni, i rapporti con la Germania non si interruppero mai. Nei primi sette anni in cui fu Generalmusikdirektor alla corte di Berlino (1842-48) come successore di Spontini, Meyerbeer favorì il nuovo repertorio tedesco dopo essersi guadagnato l’ammirazione del giovane Wagner e dei circoli più avanzati della nuova musica romantica, che in lui vedevano (per esempio Berlioz) un aperto innovatore del linguaggio armonico e timbrico.

La stessa avversione di Schumann, che risaliva già all’epoca degli Ugonotti, era di tipo più moralistico che artistico, fondandosi su una precisa scelta di campo: in altri termini a Meyerbeer veniva rimproverato proprio il fatto di non essersi schierato da una parte sola, quella dell’opera romantica, e di avere invece seguita la sua vocazione eclettica e cosmopolita. La famosa bocciatura del Profeta, che Schumann si limitò a “recensire” con una croce, quasi a ratificarne la morte, sta a indicare che la polemica era faziosa, preconcetta in nome dell’ideologia.

E invece proprio questo aspetto, il non aver mai “sposato una causa”, e l’aver sempre considerato il teatro un campo illimitato di sperimentazioni e di scoperte, costituisce per noi oggi la forza, la modernità di Meyerbeer. Acutamente Wagner aveva individuato già nel 1837 il principio fondamentale del teatro di Meyerbeer nella tensione verso il progressivo avanzamento della forma e del linguaggio operistici, a cui corrispondeva il compito di esaurire l’ultimo tratto della sua espansione secondo le “vecchie” regole. Wagner attribuiva dunque a Meyerbeer una funzione storica, anche se in contrasto con le proprie idee (che in seguito lo attaccasse violentemente, dipendeva solo dal fatto che queste idee erano passate alla fase realizzativa, e ciò escludeva necessariamente il modello e la presenza ingombrante di Meyerbeer). Se non le deduzioni, il punto di partenza era però corretto: Meyerbeer rappresenta la massima conclusione di un’epoca della storia del teatro musicale ottocentesco.

Di solito si è soliti identificarlo con il genere del grand-opéra, al quale sono associate pregiudiziali negative (grandiosità fine a se stessa, dispersione drammatica, accumulazione di effetti, correità verso i gusti dominanti del grande pubblico). Per Meyerbeer il teatro non fu mai una religione, ma il terreno di applicazione di concreti principi costruttivi ed espressivi, volti alla comunicazione e alla rappresentazione. La stessa drammaturgia delle sue opere, che mira a contrapporre sfondi storici e storie individuali, ambienti e personaggi, forme e funzioni, si arresta volutamente nel momento in cui il contrasto è portato al limite estremo, configurando una sorta di blocco che non conosce trasfigurazione o catarsi: la musica tocca quel limite, e lì si ferma.

Il gigantesco impiego di mezzi va nel senso di un esaurimento del materiale a disposizione per raggiungere un ideale di staticità che, se pur portato all’eccesso, ha in sé una misura classica, una evidenza assoluta. E nella mancanza dello scioglimento finale, del giudizio morale o della presa di posizione di fronte agli eventi, sta la vera natura dell’atteggiamento teatrale, eminentemente rappresentativo, di Meyerbeer. Ciò spiega perché egli sia stato scavalcato da altre concezioni del teatro che giungono per vie diverse non solo al teatro del Novecento ma anche alla nostra stessa idea di teatro. Ed è questo, assai più dell’obiettiva difficoltà della messa in scena delle sue opere o della perdita di uno specifico stile di canto a lui connaturato, fattori comunque reali, a renderlo un autore poco frequentato, e ancor meno capito.

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