Max Bruch – Concerto n. 1 in sol minore per violino e orchestra op. 26

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Il Concerto n. 1 per violino e orchestra di Bruch

 

Il Concerto in sol minore op. 26 di Bruch, primo dei tre dedicati al violino, è l’unico pezzo veramente popolare di un autore che in seno al movimento romantico tedesco si colloca in una posizione defilata e conservatrice, lontana da ogni radicalismo di stampo moderno. Non per nulla il modello a cui Bruch si rifece è il Concerto per violino in mi minore di Mendelssohn, sia nei riguardi della disposizione formale (per esempio nella mancanza di un’introduzione orchestrale, col violino che espone subito il suo tema; o viceversa nel fatto di legare fra loro i primi due movimenti, integrando strettamente il violino nella trama dell’orchestra), sia nella netta preminenza della vena melodica su ogni altro aspetto compositivo. La genesi del Concerto fu lunga e laboriosa e impegnò Bruch per svariati anni, dal 1864 al 1868. In questo arco di tempo il lavoro venne ritoccato almeno una dozzina di volte, giungendo alla sua stesura definitiva solo grazie ai consigli del grande violinista Joseph Joachim (1831-1907). Costui, una delle figure di primo piano nella vita musicale del tempo, già amico di Mendelssohn e di Schumann, e poi intimo di Brahms, era stato allievo proprio di quel Ferdinand David, eminente violinista e didatta, per il quale Mendelssohn aveva composto il suo Concerto per violino, avvalendosi non poco del suo aiuto in numerosi dettagli tecnici.

Oltre ad essere un eccelso violinista, Joachim era anche, se non un compositore di rango, un musicista completo e rigoroso. Il suo contributo al lavoro di Bruch, suggellato dalla dedica del Concerto, di cui fu naturalmente anche il primo e interprete, non pesò affatto sul versante tecnico-virtuosistico (fu anzi lui a consigliare Bnich di sopprimere la cadenza), ma si estrinsecò piuttosto in una sorta di controllo sulla disciplina stilistica. Per quanto avversasse le correnti “”neo-tedesche””, e fosse dotato di una spontanea facilità melodica (nella sua predilezione per il violino c’era anche la convinzione che la melodia rappresentasse l’anima della musica, a suo dire mortificata invece dal pianoforte), Bruch tendeva infatti a gonfiare la sua musica di un turgore lirico a tratti quasi esasperato, rendendola spesso un po’ dolciastra e invadente, oltre che formalmente slegata. In Joachim egli trovò un consigliere onesto ed equilibrato, che gli permise di mettere a frutto le sue doti naturali senza indulgere nei difetti: cosa che non si ripeté più così felicemente nelle collaborazioni seguenti, prima con lo stesso Joachim, poi con Pablo de Sarasate (eccezion fatta forse per la Fantasia scozzese op. 46).

Il titolo di Fantasia che Bruch in un primo momento voleva dare al Concerto tradisce la natura di alcuni aspetti del primo movimento e si riverbera sulla indicazione che l’accompagna, Vorspiel (Preludio). L’idea tematica esposta senza preamboli dal solista è una trovata musicale fulminante, che prende l’attenzione e si imprime subito nella memoria (al suo cospetto Richard Strauss avrebbe potuto esclamare: «ecco un tema!»); ma il fatto che essa non abbia poi non si dice l’uguale ma neppure praticamente concorrenti l’indebolisce nello sviluppo, che proliferando si aggira per percorsi tortuosi, facendo scaturire da quell’idea segnali sempre più deboli. La sua estinzione prepara, senza interruzione, il secondo movimento, un Adagio di vibrante densità espressiva, grave e patetico, appena al di qua del limite dell’enfatico: esso offre al solista il destro per far risaltare al massimo grado la più calda e sensuale cantabilità del violino. Questo movimento, cuore dell’opera, è notevolmente ispirato e, a differenza del primo, non cede per tenuta di tensione e intensità, risultando avvincente fino all’ultima misura.

Gli fa da contrasto il Finale, un Allegro energico di stampo virtuosistico, non particolarmente originale nei temi ma assai ben architettato nel gioco delle parti tra violino e orchestra; dove il violino si fa energicamente strada con figurazioni leggere e brillanti, da bravo protagonista, e l’orchestra lo segue docilmente, quasi con festosa ammirazione. La volata del Presto conclusivo, poi, chiama prepotentemente l’applauso già in vista della dirittura d’arrivo.

Yoram David / Uto Ughi, Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Stagione sinfonica 1998-99

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