Mascagni cavalca ancora

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Cavalleria rusticana porta bene i suoi cent’anni appena compiuti. Un volume edito per l’occasione dalla Casa Musicale Sonzogno, con contributi di autori diversi, aiuta a ripercorrere la storia dell’opera, e la sua fortuna: che fu immediatamente grande, fin da quando l’atto unico del ventiseienne Mascagni andò in scena per la prima volta al Teatro Costanzi di Roma la sera del 17 maggio 1890, dopo essere risultato vincitore del concorso bandito dall’editore Edoardo Sonzogno.

Fu un trionfo che si ripeté dovunque, non solo in Italia: Mahler, che per Cavalleria concepì una vera passione, la diresse per tre mesi consecutivi a Budapest, in ungherese, e poi la portò ad Amburgo, in tedesco; a Berlino, dove a presentarla per primo fu Karl Muck, toccò in un biennio un centinaio di rappresentazioni, e lo stesso successo riscosso in ogni parte della Germania si estese a Vienna, dove fu ascoltata con interesse tanto da Ciaikovskij quanto da Brahms, ed ebbe dal pontefice della critica Eduard Hanslick un giudizio altamente positivo: «Una forte sensualità e un temperamento passionale arroventano l’opera, che dall’inizio alla fine avvince ed emoziona: Mascagni ha ereditato da Verdi il gusto della musica che scuote il sangue». Anche in seguito, come ricorda Mario Morini nel suo saggio d’apertura (e confermano da angolazioni disparate gli altri autori di questa utilissima miscellanea), ebbe il riconoscimento e l’attenzione di compositori e interpreti importanti, anche lontanissimi dall’area del melodramma italiano.

«Un’opera di rottura», l’aveva già definita Gavazzeni in un saggio folgorante del 1969, qui opportunamente riproposto; nel quale però veniva acutamente anche aggiunto che la fortuna di Cavalleria rusticana dipendeva strettamente dal momento storico della sua apparizione. In un istante di autentica sospensione del melodramma indigeno, Mascagni tentava un recupero dei valori più genuini della tradizione operistica ottocentesca, adattandoli alle esigenze dei tempi nuovi. Seppe così sfruttare quel vuoto momentaneo e colmarlo, creando un’opera di forti contenuti passionali e dichiaratamente realistica ma di stampo antico nella serrata successione dei suoi episodi drammatici, nella oculata disposizione dei punti culminanti, immediatamente sfogati nel canto. E per quanto Roman Vlad si sforzi di dimostrare con puntuali analisi la modernità del linguaggio di Cavalleria, che a lui sembra «diverso da tutto ciò che l’aveva preceduto e, al contrario, anticipatore di opere che altri avrebbero scritto dopo», la sua forza risiede piuttosto nella capacità di far coincidere il deliberato ritorno alla tradizione più autentica del melodramma popolare con un ammodernamento dei mezzi espressivi, originale sì, ma più di facciata che incisivo nella sostanza della forma operistica.

Si è a lungo considerato determinante, per la fortuna di Cavalleria rusticana, la sua derivazione da Verga e la sua appartenenza alla corrente moderna del verismo musicale, che essa stessa contribuì ad affermare. In realtà, come illustra Egon Voss nel suo fondamentale saggio Verismo nell’opera, qui per la prima volta tradotto in italiano, il lavoro di Mascagni e dei suoi librettisti (ampiamente ricostruito da Luigi Baldacci) non ha attinenze profonde, se non nella scelta del soggetto, con i tratti fondamentali del verismo letterario. L’intenzione di riferire «fatti nudi e crudi» e di riprodurre il più fedelmente possibile «documenti umani», attenendosi perciò al dialetto e ispirandosi alla critica sociale, trova resistenza nelle esigenze del teatro, che è simulazione di storie, dove i personaggi sono trasfigurati nel canto, e tutto si concentra sulle passioni, trascurando motivazioni, deduzioni e collegamenti. Neppure Mascagni poté sottrarsi alla tradizione operistica, e i suoi librettisti ai testi in versi, misurati sulle necessità della musica.

Un’ulteriore dimostrazione di questo fatto la offre il bel volume curato da Roberto Fedi, che raccoglie insieme il racconto di Verga, poi confluito nella raccolta Vita dei campi, la

traduzione teatrale di Verga stesso e quella ancora successiva di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci per l’opera di Mascagni. Già confrontando la novella con il dramma Cavalleria rusticana, scritto nel 1884 per Eleonora Duse, si avverte una drastica riduzione di quell’ideale di autenticità che informa invece la storia raccontata; e, significativamente, l’atto unico di Mascagni si basa sul dramma, non sulla novella di Verga. La conversione da dramma recitato a opera accentua sensibilmente quel carattere, che è poi proprio del teatro musicale: esprimere i moti dell’animo nel canto, limitando le forme realistiche di comunicazione degli affetti ai punti culminanti e alle situazioni centrali dell’azione; senza preoccuparsi di motivarle psicologicamente o di inserirle in un ambiente preciso.

Non solo a Mascagni e ai suoi librettisti non interessavano, come era inevitabile, i caratteri di verità originaria della novella: ciò che premeva loro era di dare linfa nuova al melodramma mantenendo intatte le convenzioni. Verismo o no, fu un’operazione di sintesi geniale; e ciò spiega il grande successo di un’opera fondamentalmente tradizionale.

 

Aa. Vv. «Cavalleria rusticana 1890-1990: cento anni di un capolavoro», Casa Musicale Sonzogno, pp. 209, lire 25.000.

Giovanni Verga, «Cavalleria rusticana», a cura di Roberto Fedi, Salerno Editrice, pp. 141, lire 9.500.

da “”Il Giornale””

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