Malipiero e Busoni: un incontro personale e fra concezioni del teatro
Oggi che la questione del travagliato rapporto di Busoni con i giovani musicisti italiani della generazione attorno all’Ottanta – Respighi, Pizzetti, Casella, Malipiero, per fermarsi ai soli compositori – può dirsi avviata su basi seriamente documentate – ovvero in primo luogo sottratta alle enfatizzazioni retoriche circa la cosiddetta “”italianità”” di Busoni – non mi è parso inopportuno riconsiderare le vicende degli incontri, di natura personale e artistica, fra Busoni e il musicista che, tra costoro, pareva quello a lui più legato da potenziali affinità poetiche e culturali, oltre che esistenziali: Gian Francesco Malipiero appunto. Pareva, ho detto. Giacché, per tacer del resto, almeno sul piano personale la storia degli incontri fra Malipiero e Busoni può essere ricondotta sotto il segno di categoria tipica dei loro caratteri, che è l’equivoco: quello “”schmerzliches Missverständniss”” – fraintendimento doloroso – che tante volte nella sua vita di uomo e di artista Busoni sì sentì d’imputare agli altri, portandone invece sovente egli stesso la colpa.
A introdurre questo argomento, sovvengono di colpo coincidenze curiose, perfino di natura biografica, se non caratteriale. Un’infanzia per entrambi difficile, segnata dalla separazione dei genitori, dal conflitto con il padre, dal morboso attaccamento alla madre; i viaggi d’istruzione all’estero, la repulsione per Vienna (per il Conservatorio di Vienna, anzitutto, dove entrambi studiarono per breve tempo). la Germania, e Berlino in particolare, come teatro delle prime esperienze internazionali e delle prime, cocenti disillusioni, che in ambedue fortificarono lo spirito di ribellione verso l’insegnamento accademico e la caparbietà delle scelte individuali. E potremmo continuare, saltando qua e là, ricordando l’amore per i cani, amici più fedeli dell’uomo in molte circostanze; la non dissimile ruvidezza di carattere e di modi, la passione addirittura sfrenata per la freddura, il di spirito; e ancora la tendenza alla solitudine e allo sdegnoso isolamento, benché entrambi fossero, come pochi, amanti della compagnia e della conversazione; il lungo magistero didattico, che non creò scuole nel senso abituale del termine ma ebbe profondi influssi sui rispettivi ambienti e lasciò discepoli fedelissimi; e perfino quel sentirsi medianicamente in diretta comunione con i grandi del passato: giacché è noto che l’uno asseriva di parlare in sogno con Bach, l’altro a quattr’occhi con Monteverdi; e scusate se è poco. Subito li accomunano l’attrazione e la familiarità, gravida di molteplici sviluppi, verso il mondo e la cultura tedesca. Esse, originate da circostanze di nascita e di educazione e poi sempre più bilanciate dall’impegno per il rinnovamento delle tradizioni italiane e dalla volontà di essere musicisti moderni, guidarono, e sia pur verso esiti diversi, tanto Busoni quanto Malipiero nel processo di formazione culturale e musicale della loro giovinezza, fino a dare alla loro opera un’impronta autenticamente sovranazionale, di stampo europeo. E in Europa, prima che in Italia, riconosciuta e apprezzata.
Malipiero aveva veduto per la prima volta Busoni in veste di accompagnatore del violista belga César Thomson, in un concerto del 9 marzo 1902 al teatro Goldoni di Venezia. A quel tempo Busoni, di lui più vecchio di sedici anni, faticava ancora a imporsi anche come pianista; benché la sua natura d’interprete, profondamente radicata in una concezione rivoluzionaria del fatto esecutivo, non mancasse di colpire e di soggiogare, per ragioni diverse, sia il profano sia il musicista. Anche Malipiero ne fu colpito e durante i suoi ripetuti soggiorni a Berlino, dove Busoni risiedeva, cercò di entrare in contatto con lui e di frequentarlo, per quanto i riti di casa Busoni, un misto contradditorio di arte e di mondanità, non mancassero già allora di infastidirlo. “”Come mai””, scriverà in una pagina di ricordi di molti anni dopo, “”nel 1906, cioè quattro anni dopo il concerto di Venezia mi trovavo in casa di Busoni a Berlino (Victoria-Louisen-plazt) come amico, in mezzo a uno stuolo di ammiratrici (allieve) che lo ascoltavano trasognate e in pose non dissimili da quelle degli ascoltatori di quel Beethoven per dilettanti, del famigerato quadro del Balestrieri? Questo apparato scenico non era certamente apprezzabile, respingeva quasi, ma le sue esecuzioni, come quella della “”Campanella”” di Liszt, mettevano tutte le cose a posto . Riflessione lapidaria, nello stile del più puro Malipiero; il quale tuttavia, due anni dopo, dedicò proprio a Busoni una curiosa composizione pianistica (Bizzarrie luminose dell’alba, del meriggio, della notte), che fu stampata, forse anche in grazia di quella dedica, dall’editore triestino Carlo Schmidl, amicissimo di Busoni.
A Berlino Malipiero ebbe comunque modo di apprezzare la poliedrica personalità di Busoni, in quegli anni impegnato nell’organizzazione di un’iniziativa di straordinaria portata: il ciclo dei Concerti sinfonici di opere nuove e raramente eseguite. Anche Malipiero poté così conoscere dal vivo le creazioni di importanti compositori europei, da Debussy a Bartók, e soprattutto confrontarsi con le nuove tendenze della musica contemporanea, non soltanto tedesca. Di Busoni compositore udì la Turandot-Suite, ma non fu un ascolto che lo entusiasmasse: giustamente osserverà come quelle musiche trovino una realizzazione più completa nell’opera teatrale che Busoni ne trasse più di un decennio dopo.
La prima opera teatrale rappresentata di Malipiero – l’atto unico Canossa, più tardi ripudiato – fu composta nel 1911, lo stesso anno nel quale Busoni terminava La sposa sorteggiata. Le peculiarità dei contenuti e dello stile compositivo adottato da Busoni in questo lavoro tratto da Hoffmann incuriosirono non poco il giovane Malipiero, che già il 24 gennaio 1909 aveva dettato da Berlino per la rivista romana “”Musica”” una breve presentazione dell’opera, ricca di interessanti primizie. A differenza di Casella, che si avvicinò a Busoni ammirando in lui prima il grande pianista e soltanto in un secondo tempo il compositore, Malipiero colse subito le novità degli indirizzi estetici busoniani, e soprattutto le aperture che essi prefiguravano sugli orizzonti più diversi: da quello organizzativo a quello immediatamente operativo, artistico. Quando pochi anni dopo circostanze favorevoli sembrarono legare in modo stretto Busoni alle sorti della musica italiana, egli non esitò a vedere in lui il possibile capofila, prestigioso ed esperto, di quel movimento nazionale verso il quale un nutrito gruppo di giovani artisti tendeva con appassionata dedizione. don creda però che a Malipiero, osservatore acutissimo, sfuggissero i nodi di una contraddizione che non avrebbe tardato esplodere in modo clamoroso: giacché per lui Busoni era un artista, per tradizioni e cultura, essenzialmente germanico, con forti aspirazioni cosmopolite ed europee; sicché la sua vocazione italiana così tenacemente professata, fatta astrazione da ragioni umane e sentimentali, sembrava più favola che realtà: chissà, forse una favola del figlio cambiato ante litteram. Non intuì affatto male. A Bologna, dove si consumò in fretta il dramma di Busoni direttore del Liceo Musicale Gioacchino Rossini – vi aveva preso il posto, curiosa coincidenza, di Marco Enrico Bossi, con il quale, proprio a Bologna, Malipiero si era diplomato nel 1904 – i contatti fra i due musicisti divennero tuttavia più densi, seppur filtrati attraverso un velo di ufficialità che tradiva la distanza. Quanto all’opera da intraprendere nei confronti dello stato di arretratezza della musica in Italia, gli intenti erano però chiari: da un lato sprovincializzare e riformare ambiente, costumi, istituzioni; dall’altro riaffermare una espressione nazionale capace, proprio col ridare unità e vita al patrimonio e alle tradizioni del passato, di mettersi in linea con le conquiste delle altre nazioni europee. Non va qui dimenticato, di passaggio, che un filo ideale lega in questo senso Busoni a Malipiero. Quando, verso la fine della sua vita, un antico maestro, Claudio Monteverdi, si collocò “”con la forza di un sole”” addirittura accanto a Bach e Mozart, i numi tutelari della sua vita, Busoni non esitò a scrivere al ministero italiano competente per caldeggiare l’edizione completa delle sue opere: impresa monumentale, che sarebbe stata compiuta, dopo la morte di Busoni, proprio da Malipiero.
Di questo periodo abbiamo alcune testimonianze illuminanti. Anzitutto una lettera di Busoni a Malipiero nella quale, di fronte a chiare proposte su cosa si potesse fare concretamente in favore dei giovani musicisti italiani, egli rispose con estrema gentilezza ma tutto sommato in modo evasivo. E di fatto, a parte quello dello stesso Busoni, non un solo nome italiano comparve nei programmi del breve ciclo di con-certi orchestrali da lui organizzato a Bologna. Vero è che l’iniziativa morì appena nata; ma la sordità di Busoni alla richiesta di aiuti pratici avanzata da Malipiero anche a nome dei colleghi Pizzetti e Casella, è pur sempre significativa.
In quello stesso 1913, anno decisivo nella storia personale di Malipiero non meno che in quella di Busoni, troviamo i due musicisti fianco a fianco a Parigi, accomunati da differenti progetti di collaborazione con Gabriele d’Annunzio. E da lui che Busoni si attende l’impulso definitivo capace di dare concretezza alla sempre differita aspirazione di comporre un’opera italiana per soggetto, spirito e lingua. Se al giovane Malipiero sono necessari quattro mesi di attesa prima d’essere ammesso alla corte del Poeta, Busoni, artista già celebre, viene ricevuto subito e in pompa magna (“”Sembrava Mefistofele quando riceve lo studente””), ironizzò raccontando l’incontro alla moglie). Quel che seguì è noto: mentre Malipiero si legò d’amicizia con D’Annunzio, Busoni se ne staccò disgustato, sospendendo per sempre il progetto dell’opera italiana; e da quelle radici essiccate nacque nientemeno che il Doktor Faust, ossia l’opera sua più esemplarmente tedesca per spirito e forma. Una ulteriore riprova, se ce ne fosse bisogno, delle contraddizioni latenti nella fantomatica italianità di Busoni.
Il pericolo di certi equivoci, Malipiero l’aveva valutato assai bene, anche prima di registrare l’estraneità di fatto di Busoni all’impegno concreto, pagato sulla propria pelle dai giovani musicisti italiani. Ne è una riprova l’articolo scritto in difesa di Busoni per il periodico romano “”Orfeo””, dopo il suo concerto parigino del 17 maggio 1913: concerto solennemente ufficiale, nel corso del quale Gabriel Fauré a nome del governo francese aveva consegnato a Busoni il prestigioso riconoscimento della Legion d’onore. Un articolo insolitamente appassionato, si direbbe, dove Malipiero, polemizzando con chi giudicava Busoni “”bien italien”” fuori d’Italia e “”poco o nulla italiano”” in patria (l’allusione era a un concerto milanese di pochi giorni prima, quando Busoni era stato acclamato come pianista ma criticato come compositore) si lanciava in una dura requisitoria contro le etichette e i pregiudizi scioccamente coltivati da chi si preoccupava soltanto di demolire a priori o di glorificare con enfasi. Così facendo Malipiero intendeva
richiamare tutte le menti oneste alle proprie responsabilità in un momento “”troppo importante per i destini dell’arte musicale italiana””, spezzando una lancia, soprattutto verso la fine dell’articolo, non soltanto in favore di Busoni (“”forte compositore, conosciuto ed eseguito moltissimo fuori d’Italia””) ma anche di se stesso, della propria individualità di creatore, che giusto in quel momento si veniva chiarendo e sviluppando:
“”Si osano definire “”povere”” le idee musicali brevi, o che si basano sul sole ritmo e servono al musicista ad esprimere un pensiero, come una frase lunga e varia può servirgli ad esprimerne un altro. E’ tempo di finirla con tali grotteschi preconcetti. (Tre note ripetute costituiscono il tema del primo tempo dell’Eroica beethoveniana e chi non è mai stato scosso anche dal significato di un solo suono potente, non ha il diritto di imporre al musicista italiano la misura per le sue idee). La freddezza del nostro pubblico anche verso i compositori favoriti è l’indizio che in embrione esiste il bisogno di progredire, ma per progredire innanzitutto è indispensabile: “”Imparare ad ascoltare””. […] “”Imparare ad ascoltare”” vuol dire ridare all’arte la sua vera missione che non è quella di divertire, ma di trascinare, di trasportare in altre sfere attraverso sensazioni sovrumane””.
Che proprio quest’occasione sia stata causa indiretta di un distacco irreversibile dall’artista al quale Malipiero, nello stesso articolo, attribuiva un “”ruolo molto importante per il movimento musicale italiano””, può apparir strano, ma strano non è se si considerano gli umori nascosti, irrazionali e insondabili, che ribollivano nel più profondo dell’animo di Malipiero. A Busoni, proprio perché grande artista e compagno di lotta, egli non fu disposto a perdonare le apparenti meschinità del comportamento umano: la sua alterigia, quell’essergli tutto dovuto, anche le attenzioni dei più fedeli amici e ammiratori, come Casella; non comprendendo, o fingendo di non vedere, le tre-mende lacerazioni e gli asperrimi conflitti che si agitavano in Busoni, nel suo rapporto con il mondo esterno. A leggere il racconto fatto dallo stesso Malipiero di quel distacco e della fine di un’amicizia così importante vien quasi da sorridere, tanto le ragioni appaiono banali; a meno di non volerle interpretare come un richiamo, terribilmente serio, ai doveri del saper essere sempre se stessi, anche nelle piccole cose, e soprattutto nella amicizia:
“”Nel 1913 Casella mi invitò, non ricordo più in quale caffè parigino, per festeggiare l’amico Busoni insignito della Legion d’onore. Con non lieve sacrificio contribuì alle spese del simposio, che mi lasciò piuttosto indifferente. Qualche anno più tardi, con grande gioia, a Milano, mi precipitai all’albergo per tener compagnia a Busoní e assistere al suo concerto che doveva aver luogo la sera stessa. Un famoso seccatore interrompeva il nostro colloquio e pur avendo approfittato della generosa presentazione di Alfredo Casella, inveì contro l’incauto protettore. Non potei dominare la mia irritazione quando Ferruccio Busoni gli tenne bordone. Forse fu il ricordo della serata parigina e della gioia di Alfredo Casella per la Legion d’onore, che mi fece scattare e uscire dall’albergo quasi senza salutare; rinunziai al concerto. E questo un altro caso di un’amicizia finita meschinamente””.
Non senza che Malipiero aggiunga, quasi a voler chiudere un cerchio apertosi tanti anni prima, in una fredda serata veneziana:
“”Però se César Thomson non esiste più, Turandot, Arlecchino e il Doktor Faust sono vivi davanti a noi e mi confermano che bene avevo fatto a coltivare l’amicizia di Ferruccio Busoni””.
Morto l’uomo, rimangono in vita le sue creature.
Sicuramente Alfredo Casella per primo avrebbe sorriso dello spiacevole episodio. Egli conosceva bene le debolezze dell’amico, quell’ironia verso tutto e tutti che lo coglieva sovente, soprattutto nell’imminenza di un concerto importante (non per nulla era egli stesso “”virtuoso””, esperienza che a Malipiero mancava). Vanità dunque soltanto superficiale, espressione forse sgradevole di uno scherzare col fuoco tipico dell’atteggiamento di Busoni. Non è soltanto un’ipotesi credere che le ragioni di quel distacco fossero nella sostanza altre, più specifiche, e che la tensione nascesse dall’essersi reso conto, Malipiero, dello scetticismo, ormai divenuto esplicito, di Busoni nei confronti dei musicisti italiani e del movimento musicale italiano; e verso di lui, Malipiero, in modo particolare. E per esempio inspiegabile che nella nota polemica fra Pizzetti e Malipiero ospitata sul “”Pianoforte”” nel 1921-1922 Busoni prendesse le parti del primo, benché le sue posizioni, fossero assai più vicine, direi intimamente affini, a quelle del secondo. Ancora contraddizioni, semplicemente? Malipiero ne trasse le conseguenze: in occasione della penosa controversia nata, per motivi solo apparantemente futili, sulla questione della lettera in difesa dei musicisti italiani da inviare alla presidenza della Società Internazionale di Musica Contemporanea per protestare contro la trascuratezza con cui questi erano stati trattati nella compilazione dei programmi del festival del 1923, Malipiero, di fronte alla pacata e morbida accondiscenza di Casella, assunse una posizione di netta intransigenza: “”Busoni””, scrisse allora a Gatti, “”non si può considerare italiano!””. E intendeva dire certamente non soltanto che non lo considerava un esponente rappresentativo della sezione italiana della SIMC, ma anche che non lo considerava un compositore appartenente all’area dei musicisti italiani. Al di là dei risvolti umani e di tutte le osservazioni che si possono fare, e che di recente sono state fatte molto opportunamente, resta il dato che Malipiero fu l’unico ad avere il coraggio di dire a chiare lettere che tutti, sotto sotto, e non a torto, pensavano.
Ma se, voltando pagina, si prova a uscire dagli equivoci, comunque istruttivi, e dalle tensioni inevitabili di quegli anni di dure battaglie per guardare più a fondo nelle scelte artistiche, di poetica musica-le, operate dai due compositori soprattutto in ambito teatrale, ecco che ci troviamo di fronte a convergenze quanto mai singolari. Sia ben chiaro: nessuno si sogna di parlare di influenze dirette dell’uno sull’altro compositore; certo è però che nel modo di concepire il teatro musicale affiorano alcuni tratti comuni, che si rendono visibili nei lavori maturi di Busoni (Arlecchino, Turandot e Doktor Faust) e nella prima produzione di Malipiero fino al Torneo notturno (col Torneo notturno intendendo la sintesi, la quintessenza di tutti gli elementi poetici e musicali che Malipiero era venuto sviluppando nel suo teatro da Pantea e Sette canzoni in poi). Questi tratti comuni si evidenziano dunque in un periodo storico preciso. Esso coincide con un momento di importanti trasformazioni nelle vicende della musica del Novecento: un periodo caratterizzato da una crisi generale di portata europea di fronte alla quale molti artisti si trovarono a dover affrontare problemi simili, oggettivamente attuali. Nei casi che ci interessano, i termini possono essere riassunti così: da un lato la volontà di rinnovamento, di confronto con le più recenti esperienze linguistiche e formali, allo scopo di conquistare nuovi spazi espressivi e individuali; dall’altro la necessità di porsi in modo critico di fronte al problema specifico dell’opera, sia in sé sia in rapporto alla tradizione passata e recente (di qua il melodramma italiano, di là il dramma musicale wagneriano). Partendo dal superamento in blocco del melodramma romantico dell’Ottocento, abolendo il conflitto di sentimenti, ormai degenerato in sentimentalismo, come centro emotivo dell’opera, reagendo dunque coerentemente al verismo e a ogni tipo di naturalismo in musica, entrambi giunsero negli stessi anni a concepire una forma di teatro sintetico, a quadri staccati e bloccati in se stessi, “”antiteatrale”” e “”antidrammatico”” – per quanto sostanziato di culmini drammatici (paradossalmente, tutto vi è già culmine e non lo è mai), e nel quale parola, gesto e musica risultano per se stessi necessari sottraendosi però alle formule precostituite (tanto a quella della “”totalità”” wagneriana quanto a quella melodrammatica della divisione tradizionale in recitativo e sviluppi propriamente musicali). Se a questo proposito le tesi di Busoni sono notissime, gioverà ricordare qui un passo di uno scritto di Malipiero del 1913, intitolato Del dramma musicale italiano e dei suoi pregiudizi:
“”La “”teatralità””, ecco il primo dei pregiudizi! Per teatrale s’intende ciò che inceppa lo svolgimento spontaneo dell’azione drammatica ed è questo un fenomeno stranissimo di due forze che non potendo sopprimersi a vicenda, vengono a patti e si aiutano per non soccombere. Le situazioni drammatiche cercano di giustificare l’assenza della musica e lo svolgersi delle “”scene”” s’arresta onde lasciare che la musica trionfi (…). Nel “”dramma musicale”” è innanzitutto indispensabile che musica e poesia si compensino secondo una legge estetica superiore e volendo proclamare la libertà assoluta, è questa la sola imposizione che si deve fare””.
Già Guido Maria Gatti, citando ancora Malipiero (“”Per me drammatico vuol dire che si vede mentre la musica ci presenta quello che non si vede“”), aveva messo l’accento sull’affinità di questa discriminazione di elementi nell’opera composita con uno dei principi base dell’estetica teatrale busoniana, rilevando come l’intento di legare il mondo scenico (reale) con quello (immaginario) creato dalla musica (principio dell’integrazione reciproca senza nocive interferenze) ricalcasse quel che Busoni esemplificò con il celebre episodio della allegra brigata notturna che si allontana sul palcoscenico, mentre sul davanti della scena si svolge una lotta silenziosa e disperata (la Barcarola dei Racconti di Hoffmann di Offenbach). Di qui la necessità di ricorrere a mezzi e forme espressive diversi come marce, danze, canzoni, e perfino “”mascherate, magie e notturni””, per farne il fondo strutturale dell’opera (come situazione ottimale Busoni prospettò una “”forma di azione accompagnata dalla musica e illustrata dal canto, senza testo verbale: ne risulterebbe una specie di `pantomima cantata””‘: proprio ciò che Malipiero realizzò nel dramma sinfonico Pantea); e, complementarmente, la necessità dell’uso assoluto libero di forme musicali e linguaggi diversificati – dal semplice parlato, al declamato, dallo Sprechgesang all’ampio canto arioso – per evitare tutti i convenzionalismi antimusicali: come scriverà Malipiero nella prefazione alle Tre commedie goldoniane,
“”gli attori cantano quando la situazione drammatica lo richiede, tacciono quando il loro silenzio ha significato drammatico, e non ho esitato di adottare personaggi muti (…) quando per ragioni drammatiche o musicali mi è sembrato inutile, se non dannoso farli parlare di più””.
Come conseguenza estrema di questa poetica antioperistica abbiamo i casi, apparentemente contraddittori, in cui i culmini drammatici sono rappresentati da episodi puramente musicali (intermezzi o postludi sinfonici, esempio massimo ma marcia funebre che chiude il Torneo notturno), oppure quello in cui i contrasti (ovvero l’assenza di contrasti, ancor più efficacemente rappresentativa) nascono proprio dalla relazione fra azione, parti cantate e parti sinfoniche (l’estraneazione fra ciò che si vede e ciò che si sente nelle Sette canzoni, la musica sinfonica che si alterna con le canzoni nel Torneo notturno). Si realizza così quel “”tendere della musica teatrale alla ‘musica pura’, memoria d’una realtà, ricordo di una sua larvale esistenza premusicale”” di cui parlò intuitivamente Bontempelli: e che, così chiarita, può valere come indicazione interpretativa di fondo per il teatro di entrambi gli autori.
Quanto al linguaggio musicale in particolare, c’è un comune atteggiamento di apertura a mezzi di espressione moderni, collegato al fervore delle ricerche contemporanee proprie e altrui; esso si ravvisa prima di tutto sul piano armonico (la depurazione del cromatismo più acceso e il recupero del diatonismo, ma anche l’istanza di allargare i nessi tonali, talvolta servendosi proprio del cromatismo, talaltra di accordi per quarte parallele o di procedimenti politonali); lo ritroviamo nell’uso insistito della polifonia come mezzo di raccordo del tessuto vocale e strumentale, nel rifiuto della perorazione lirica e del virtuosismo canoro, ma non della melodia, del canto espressivo, nello spessore (qualitativo prima ancora che quantitativo) dell’orchestra rispetto al canto stesso (l’assottigliarsi o viceversa addensarsi dell’ordito strumentale), nel prosciugamento dei colori (consapevole rinuncia al fasto timbrico dell’opera wagneriana), nella stessa disposizione reciproca di questi mezzi nell’economia drammatico-musicale della composizione. Volendo generalizzare, si può osservare come molti di questi aspetti costituiscano di per sé lo sfondo comune del lessico musicale del primo Novecento, soprattutto in compositori i quali, accanto all’ansia di rinnovamento e di sperimentazione, mantennero vivo il legame con il proprio passato e le proprie tradizioni, senza per altro intenderle in senso conservatore o nostalgico. In altri termini, accade che una patina novecentesca, arcaico-moderna, rivesta in modo quasi uniforme stili che pur tendono a differenziarsi individualmente, fino quasi a divenire essa stessa connotazione stilistica. A sottrarsene in modo radicale, escludendo il caso del tutto atipico di Strawinsky, furono quei musicisti che, come Debussy e più tardi Schönberg, fecero del loro lessico, anche in senso strutturale, un sistema linguistico, generando una scuola. Busoni del resto scorse lucidamente che ogni tipo di rinnovamento ha le sue convenzioni, le quali finiscono per equivalersi, e insisté molto sulla necessità di riscattarle con l’illuminazione delle individuali, abnormi intuizioni creative (quell’ossessione della ‘trovata’ – Einfall – che tanto lo angustiò e che fu la ragione prima della tragica incapacità di terminare il Faust).
Linguaggio eclettico, è stato detto. Ma che l’eclettismo, oltretutto sviluppato anche sotto l’aspetto tecnico e mirante dell’arricchimento dei mezzi d’espressione tradizionali, non fosse rinuncia alla propria personalità ma scelta cosciente volta a individuare un volto personale nella disgregazione linguistica di quegli anni, è cosa per noi evidente. Solo facendo tabula rasa di ogni pregiudizio, sarebbe stato possibile agire; e nel caso specifico ciò significava anche forzare le convenzioni teatrali proprio in quanto tali. Scegliendo, come Busoni, di divenire librettista di se stesso, Malipiero sentì il bisogno di creare nel suo teatro un’atmosfera idealizzata, basata sull’irreale e sul soprannaturale: non tanto storie o soggetti soprannaturali, ché anzi il legame con la realtà è fortissimo, quanto situazioni, fenomeni e sentimenti resi in modo soprannaturale e irreale (“”creare un mondo di apparenze che rifletta la vita in uno specchio magico o in uno deformante””, avrebbe detto Busoni: e la consonanza fra le due poetiche è qui perfetta). Evanescenza della realtà, dubbio e finzione, illusione e giuoco, magico e fiabesco, amore per il fantastico, per il misterioso, per il fatale, sono tutti aspetti complementari di quella idealità (atmosfera idealizzata) che contraddistingue il teatro di Malipiero e ha vasta eco in quello di Busoni, persino nel modo di appropriarsi e rendere attuali modelli e mondi poetici di altre età: il teatro delle marionette, la Commedia dell’Arte e il settecento veneziano, le commedie hoffmanniane.
A voler essere più concreti, c’è un elemento importantissimo che s pone come cifra stilistica in entrambi gli autori, massime nel loro teatro, ed è l’impiego strutturale della citazione. Non alludo soltanto alle citazioni colte o popolari di altre musiche, o a quelle poetiche, di cui abbondano i libretti malipieriani, e neppure alle autocitazioni musicali spesso sotterraneamente presenti (è straordinario, per esempio, che anche la Canzone del tempo del Torneo notturno finisca, nel ciclo delle sue diverse apparizioni, per sembrare una citazione); alludo invece a un linguaggio drammatico-musicale che suggerisce di continuo cose già dette, fatti già avvenuti, situazioni eternamente ricorrenti ed eternamente nuove, rivissute come se provenissero da mondi ormai lontani e filtrate attraverso il distacco ineluttabile fra ciò che rappresentano e ciò che significano: altrimenti detto, non tanto citazioni, ma anche memorie, citazioni smembrate di cose già sentite o vissute di cui si è perduto il nesso e soprattutto il contesto originario. Anche i personaggi non sono per così dire funzionali. Non sono cioè personaggi caratterizzati a tutto tondo e inverati sulla scena, ma figure simboliche che passano, appaiono e scompaiono, rispecchiando come ombre molteplici destini. Sovente sono tipi affatto convenzionali, sottratti però a funzioni univoche, ossia a quella predeterminata e fertile distribuzione dei ruoli che organicamente guidava l’intreccio nell’opera antica, buffa o seria che fosse. L’intreccio, l’‘imbroglio’ scompare, e i personaggi divengono allegorie, perfino di se stessi. Un esempio: il. tipo dell’innamorato, nella Serenata delle Sette canzoni così come nell’Arlecchino, è presentato secondo schemi convenzionali (tutti e due fuori scena cantano appunto una serenata all’innamorata), ma questi schemi convenzionali, appena definiti, saltano, deflagrano quasi, cambiando improvvisamente contesto e divenendo ambigui, inafferrabili. In casi estremi questi personaggi non sono altro che maschere: e difatti, esplicitamente, le maschere tradizionali hanno molta parte sia nel teatro di Malipiero che in quello di Busoni (in Arlecchino e Turandot). Ma quel che più conta è il tema della maschera in sé. Ciò che Stuckenschmidt disse di Malipiero (“”Tutte le sue figure potrebbero portare la maschera””) può essere tranquillamente esteso anche al teatro di Busoni, fatta eccezione per il Doktor Faust: dove, deposte le maschere, le figure ambiscono a farsi incarnazioni viventi di simboli eterni.
Vi è però una differenza da mettere in luce, dopo quanto ho detto. Nella scelta formale della costruzione a quadri staccati e autosufficienti, nella stessa fitta rete di collegamenti e rispondenze, Busoni si rifà chiaramente alle forme chiuse della tradizione, sia pur rielaborate in modo personale e modernamente critico. Malipiero invece evita accuratamente ogni riferimento intenzionale a queste forme, che nel suo teatro rimangono, tutt’al più fantasmi. Il loro linguaggio teatrale, abolendo il crescendo emozionale basato sul contrasto psicologico e rifiutando il criterio dello sviluppo tematico distribuito lungo itinerari articolati, si affida all’invenzione di idee musicali brevi e iterate, costruite in modo da corrispondere alle varie situazioni drammatiche e alimentate dalla pulsazione di trasformazioni incessantemente rinnovate. In Busoni però, in misura assai maggiore che in Malipiero, è serbato rigorosamente il principio di un divenire lineare, di un procedere fondato sulla dialettica tensione-distensione, anche se con modalità tutte speciali. Ciò avviene di norma attraverso la sospensione dell’azione come massima intensificazione della medesima; affidando cioè a strutture puramente musicali la condensazione e la concentrazione dei contrasti drammatici, di cui esse rappresentano il vertice e lo scioglimento. (Il punto di arrivo è perciò ogni volta il momento di massima tensione e insieme di distensione massima, dove avviene il salto di qualità in regioni assolutamente musicali). Questa parabola assai complessa, che ha l’esempio più alto e paradigmatico nel Quartetto della Turandot, diverrà nel Doktor Faust principio strutturale e formale, al punto da figurare come un vero e proprio quadrato magico di corrispondenze simboliche.
E infine. E’ sintomatico che l’ordine musicale, intessuto di fattori così molteplici e di così complesse trasformazioni, si cali – sia in Busoni sia in Malipiero – in un ordine formale astratto, fatto di ben calcolate simmetrie, di proporzioni accuratamente predisposte e distribuite, create ex novo e di continuo esorbitanti l’ambito specificamente teatrale, ma capaci, sulla scena, di seguire la suggestione delle immagini e di ridarla con contorni nitidi, con vero sentimento, con efficacia rappresentativa scevra da astrattezza e da intellettualismo. Ove non predomini l’atto unico unitariamente scandito in ‘stazioni’ (è noto, che nell’Arlecchino Busoni usò il termine Satz per indicare le quattro parti di cui si compone il lavoro, come se si trattasse di una forma sinfonica in quattro tempi), il modello drammaturgico è quello della libera costruzione architettonica, senza barriere precostituite: non più atti di una unica storia o scene che si susseguano per vincolo di congiunzione, ma quadri, episodi (“”espressioni drammatiche””, “”notturni””, come scrive Malipiero), ossia ‘parti’ di un tutto, del tutto che seguono un filo interno di successione talvolta non immediatamente percepibile, ma sempre presente, magari in virtù di un numero magico, come certo doveva essere il sette per Malipiero.
Un’ultima, decisiva osservazione si impone però a questo punto. Essa riguarda l’elemento costruttivo, inteso in senso formale, nel teatro di Busoni e di Malipiero. Per quanto egli se ne serva, il concetto stesso di costruzione, la costruttività, come principio positivo e totalizzante, è vanificato a priori e liquidato da Malipiero, mentre Busoni mostra di crederci ancora, lo pone anzi alla base della sua estetica teatrale: il suo, massimo nel Doktor Faust, è idealmente un teatro della continuità, dell’ascesa, della ricomposizione dei dissidi e dei conflitti, sotto ogni punto di vista: sua mèta è la totalità, l’assoluto, artistico e spirituale. Quello di Malipiero è invece un teatro della discontinuità, dell’assenza, della nostalgia, giocato sugli scarti improvvisi e lancinanti, edificato sui vuoti più che sui pieni: un teatro del nulla, senza trasfigurazioni finali. Non c’è dubbio che in Busoni covasse l’ambizione di ridare unità e compiutezza non soltanto al genere dell’opera (“”la forma unica e universale dell’espressione e del contenuto musicale””, come egli lo definì), ma anche al linguaggio musicale nel suo complesso: mèta che Malipiero, nel suo cupo pessimismo circa i massimi sistemi che dovrebbero reggere il mondo, non si pose neppure. I messaggi finali del Poeta agli spettatori e del Buttafuori rispettivamente nel Doktor Faust e nel Torneo notturno, che per maggior chiarezza sono affidati alla recitazione parlata, sono a questo proposito inequivocabili. Forse anche per questa lucida inquietudine che tradisce un dissidio individuato e non risolto il teatro di Malipiero ci appare nei suoi momenti riusciti più attuale di quello di Busoni, vicino alle angoscie del nostro secolo e lontano dagli esorcismi invano attuati per combatterle. Che poi, volendo salire alla sommità dei cieli, Busoni finisse per ritrovarsi sull’orlo dell’abisso infernale, condannato a non poter finire il suo utopico Doktor Faust, è altro discorso. Malipiero non tese mai a tanto, ma accettò lo stato di fatto, sostanziando la sua scelta di pertinenti ragioni umane che non ambirono a farsi provvidenziali, anche se riuscirono universali.
Da G. F. Malipiero e le nuove forme della musica europea, Reggio Emilia, Teatro Municipale R. Valli e Musica/Realtà, 5-7 ottobre 1982. Atti a cura di Luigi Pestalozza, Edizioni Unicopli