Eccellente esecuzione dell’opera di Dvorak all’Accademia nazionale Santa Cecilia
Roma – Georges Prêtre è tornato all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con lo Stabat Mater di Dvorak, una partitura di ascolto raro e di straordinaria bellezza.
Il vantaggio di una stagione solidamente impiantata come quella di Santa Cecilia (trentaquattro programmi sinfonici, trenta da camera) è che accanto al repertorio si possono ascoltare anche queste rarità, senza mai perdere il filo conduttore e anzi istituendo nessi istruttivi.
Quando poi la scelta è tanto preziosa quanto importante e l’esecuzione viene affidata a un direttore come Prêtre non c’è solo il piacere di un concerto insolito ma anche il successo è assicurato: un’ora e mezzo filata di musica seguita nella più religiosa concentrazione, e un diluvio di applausi alla fine.
Prêtre è un direttore capace di grandi intuizioni. In passato il suo limite era la discontinuità: soprattutto nell’appassionarsi troppo ai particolari senza dare altrettanto risalto alla linea generale del pezzo; e nel risolvere anche i particolari in valori assoluti di sensibilità per il suono.
Il suo repertorio era quasi esclusivamente costituito dalla musica francese, affrontata e resa in modo amabile, estroso, brillante, teatrale e a tratti estetizzante. Ma poi Prêtre ha arricchito il suo repertorio e soprattutto negli anni in cui è stato a capo dei Wiener Symphoniker si è dedicato assiduamente alla musica tedesca, abbandonando sempre più il teatro.
Il salto oggi è evidente: Prêtre è diventato un direttore più completo e profondo, un mago del suono che entra nel cuore della musica e ne considera anche altre ragioni.
Che nello Stabat Mater sono nascoste non solo nella varietà degli atteggiamenti compositivi ma anche nella visione fortemente umanizzata che presiede allainterpretazione del testo sacro da parte di Dvorak.
Il dolore della Vergine sotto la Croce vi assume tratti di intensa drammaticità, si scioglie in compianto non solo individuale e trova alla fine un conforto nel significato stesso della sofferenza: che è essa stessa una condizione transitoria verso la beatitudine, e dunque una conquista.
Prêtre ne ha reso il carattere originale, pur così intriso di canto popolare e di richiami alla musica romantica, con una forza espressiva diretta e figurativamente suggestiva, sottolineando con tempi scorrevoli ma mai precipitati il percorso di progressiva ascesa dalla oscurità alla luce.
La tensione impressa ai dieci numeri della partitura aveva il calore emozionante della verità.
La splendida resa dell’orchestra, di nitido spessore negli archi e impeccabile nelle uscite solistiche di flauti, oboi e corni, nasceva dalla chiarezza con cui il direttore dominava la partitura e dal clima di densa spiritualità ricreato con naturalezza.
I quattro solisti (Edith Wiens, Jadwiga Rappé, Thomas Moser e Peter Mikulas) intonarono le rispettive parti con proprietà stilistica e sicura padronanza tecnica, brillando sia individualmente sia negli insiemi.
Ma un risultato così impressionante non sarebbe stato possibile senza la presenza di un coro a cui Norbert Balatsch sembra aver dato nuova compattezza e lucentezza, e soprattutto orgogliose, coscienti motivazioni.
da “”Il Giornale””