Volantinaggio di protesta prima dell’opera di Massenet al Comunale di Firenze riaperto dopo il restauro
Raimondi cavaliere di gran classe, Guingal direttore di routine
Firenze – Doveva essere una serata rovente, e cosi è stato. Attizzata non a suon di musica bensì di documenti, comunicati, insulti. Alla lettera rassicurante del sindaco Morales agli spettatori del Teatro Comunale («Tutto sotto controllo, respirate pure») rispondeva quella allarmata, goffamente ironica della Lega per l’ambiente («L’amianto non fa males… parola di Morales»); in quest’aura di alata poesia planarono i volantini gialli lanciati dai loggionisti piú acculturati (intestazione in tedesco: «Eine florentinische Tragödie») che se la prendevano col Sovrintendente in modo non proprio elegante; ed ecco gracchiare dall’altoparlante il comunicato sindacale, in buon confederale antico, pieno di appelli, di vigilanza e di scioperi a scopi benefici. E non era finita. Chiuso il microfono imperversò, questa volta in vernacolo, la protesta del loggione becero: «Bogianckino vattene!», «Bogianckino peggio dei Pontello!». Bartoletti come Baggio, dunque? Bel modo davvero di festeggiare carnasciale nell’anno in cui Firenze ricorda solennemente Lorenzo il Magnifico, e il tempo che fu.
Tutto ciò come prologo alla riapertura del Comunale dopo un anno e mezzo di lavori. Ma l’emergenza continua, almeno fino a tutto i1 1993. Nuove chiusure sono dietro l’angolo, mentre il teatro ha ridefinito i suoi «ruoli direzionali». E la musica? Per ora viene dopo. Ripartendo con un titolo che fa pensare alle utopie, Don Quichotte: per l’occasione quello di Massenet, in francese e senza i consueti sopratitoli (una inversione di tendenza?). È la seconda volta che tocca a questo compositore gentile, nell’anno in corso, il lustro dell’inaugurazione: a Bologna fu con il Werther, qui con un’opera assai meno nota, parente solo alla lontana del romanzo di Cervantes, l’ultima di una lunga e onorata carriera (1910). Una novità per Firenze, una ripresa per quanto riguardava l’allestimento. Nato giusto dieci anni fa a Venezia, con Piero Faggioni, tutto-fare (regia scene costumi luci), Ruggero Raimondi imponente protagonista e Georges Prêtre sul podio. Qui restavano lo spettacolo-monstre di Faggioni e la classe dell’interpretazione di Raimondi; mentre Prêtre era sostituito, con evidente svantaggio, da Alain Guingal, un direttore di routine in bianco e nero. Saggia la decisione di puntare sul sicuro per un’opera non di repertorio: ma un po’ deludente nel complesso la scelta, se commisurata alla pochezza di una stagione lirica fatta di tre sole opere.
Anche perché lo spettaolo di Faggioni, che in origine aveva una forza propositiva e una sua attualità, oggi denuncia qualche ruga. Soprattutto nell’idea che ne sta alla base: il «teatro nel teatro» trasposto «nella realtà culturale e politica del nostro tempo», da cui discende la rappresentazione vista come un sogno del protagonista in punto di morte. Che porta con sé molte di quelle attive abitudini da regista che proprio recentemente s’individuarono; con un corollario che perfino a Buscaroli era sfuggito: la libertà del demiurgo di intervenire anche sulla musica. Faggioni utilizza l’interludio orchestrale (non preludio) del quinto atto come Ouverture e lo sceneggia per introdurre la tecnica del flashback. Massenet, senza essere un genio, conosceva bene il teatro: dove – avrebbe detto anche di lui Despina – «col posso e voglio sa farsi ubbidir». Intendiamoci, Don Chisciotte non è il Fidelio e non soffre granché per tali alterazioni; ma questi atti sono quantomeno incompatibili con quella moralità verso l’opera d’arte di cui Faggioni appassionatamente si fa carico nell’immancabile nota di regia. La bravissima Delores Ziegler (Dulcinée) e il glorioso Gabriel Bacquier (Sancho Panza) facevano corona all’impegno di Raimondi. L’orchestra era a non piú del settanta per cento delle sue possibilità (la lontananza dal Comunale aveva i suoi effetti nell’intonazione non sempre pulita), idem il coro, spaesato in qualche singolo attacco ma compatto nell’insieme. Passata la tempesta il pubblico ha risposto con compostezza e con calore, sicché si potrebbe parlare di successo incontrastato. Ma il pubblico, non solo quello dissenziente, vuole che si torni al piú presto a fare molta musica sul serio, ad avere idee chiare piú che parole.
«Don Chisciotte» di Massenet al Comunale di Firenze (repliche 1, 4, 6 e 9 febbraio)
da “”Il Giornale””