Luigi Dallapiccola – Job

L

Luigi Dallapiccola

Job

«E’ stato osservato che l’idea fondamentale di lutti i miei lavori per il teatro musicale è sempre la medesima: la lotta dell’uomo contro qualche cosa che è assai piú forte di lui. In Volo di Notte assidsiamo alla lotta del Signor Rivière, il solitario direttore di una compagnia di navigazione aerea, che tenta di imporre i voli notturni nonostante l’opposizione generale e – inoltre – alla lotta del pilota Fabien, la vittima, contro gli elementi della natura. Nel balletto Marsia si assiste alla nota contesa tra il fauno, scopritore della musica, e il dio Apollo. Nel Prigioniero, il protagonista lotta contro l’Inquisizione di Spagna e, infine, nella sacra rappresentazione Job, il protagonista pone a Dio la domanda ardua e impegnativa che mai uomo abbia osato rivolgere alla Divinità. […] Se il Signor Rivière vince a metà la sua partila (non più che a metà, in quanto egli sente chiaramente di trascinare la catena della sua pesante vittoria.),  Marsia viene completamente sconfitto per aver osato sfidare Apollo. Il Prigioniero cade nelle braccia del Grande Inquisitore, che lo conduce al rogo. Giobbe riesce a salvarsi in virtú del suo pentimento, quando tutto sembrava oramai perduto».

Per quanto marginali rispetto al tenta dello scritto in cui si trovano – ossia la nascita del libretto della sua ultima opera Ulisse – queste parodo di Dallapiccola definiscono con estrema precisione il nodo centrale costantemente presente non solo nel teatro ma in quasi tutta la sua produzione musicale. La domanda che viene posta alla fine di Job (n. 5, Job solo) è questa: «Perché gli empi continuano essi a vivere…?». La risposta di Dio a Giobbe è in realtà un’altra domanda: «Dov’eri tu quand’io fondava la terra…?». Più che di una risposta. si tratta dunque di una catena di domande sempre più incalzanti, da cui discende il «primo passo che porterà alla risposta». come Dallapiccola stesso precisò: e questa risposta verrà data nelle sue opere successive. Anche ll prigioniero si chiudeva con cura domanda. «La libertà…?»: e sanciva. più che una sconfitta delle ragioni che spingono l’uomo a lottare per principi ideali, come a molti parve, l’impossibilità di dare un significato ultimo e una giustificazione alle ansie e alle domande dell’uomo sul piano della storia e delle pure idealità. La fede negli uomini si scontra col dubbio e vacilla: solo trasferendo questi conflitti e questi interrogativi in un ambito spirituale e metafisico, se non religioso, il nodo comincia a sciogliersi, e nuove prospettive cominciano ad aprirsi. Da questo momento i temi centrali dell’opera di Dallapiccola saranno la lotta dell’individuo con se stesso e il senso dei suo colloquio sempre chiarificatore con la Divinità.

L’uno e l’altro tema appaiono con estrema evidenza in Job. Non fu certo solo per reagire ai molti fraintendimenti originati dalla prima rappresentazione scenica del Prigioniero al Maggio Musicale fiorentino del 1950, né tantomeno alle polemiche e alle vergognose insinuazioni già circolanti dopo la prima assolata radiofonica del 1 ° dicembre 1949 a Torino, che Dallapiccola si risolse a scriverlo. Né sembra che vada sopravvalutata l’indicazione, fornita dall’autore stesso, secondo la quale la prima sollecitazione a occuparsi dell’argomento di Gobbe gli venne da uno spettacolo del danzatore e coreografo tedesco Harald Kreutzberg al Teatro della Pergola di Firenze (13 giugno 1949). Per quanto indmenticabile rimanesse l’impressione del penultimo pezzo del programma, «Giobbe lotta con Dio», Dallapiccola sentiva il bisogno di riprendere la questione lasciala aperta – in una visione dolorosamente pessimistica sia con una battuta in fondo anche di teatralissimo effetto – alla fine del Prigioniero, per indirizzarla verso un’altra soluzione. Che sarebbe stata di altro tipo non solo nei contenuti, ma anche nella forma, quella di una «sacra rappresentazione».

Apparentemente decisiva fu la proposta venutagli nel marzo 1950 da Guido M. Gatti di scrivere appunto una sacra rappresentazione per l’associazione romana L’Anfiparnaso, da poco costituita con lo scopo di promuovere l’opera da carnera moderna e, al tempo stesso, far rinascere dall’oblio lavori teatrali antichi.Accettare di comporre una sacra rappresentazione ‘moderna’ significava anzittiito affrontare il problema drammaturgico dell’azione, che non poteva basarsi su convenzioni operistiche né ripetere le stereotipe funzioni dell’historicus dell’antico oratorio: Dallapiccola lo risolse affidando la parte dello storico a una voce recitante e riservandogli il compito di introdurre la vicenda drammatica, di unire fra loro alcuni episodi con brevi interventi e di concluderla. Non mancavano esempi moderni che avevano già adottato questa linea: ma oltre a quelli comunemente e mecccanicamente citati – Le Roi David di Honegger, Oedipus Rex di Stravinsky e A Survivor from Warsaw di Schönberg – s’imponeva sopratutto con la forza di un’ossessione biblica il peso del contrasto tra parola e azione immanente nel Moses und Aron di Srhönberg. Il quale è il modello tenuto presente da Dallapiccola non solo per la comune fonte dell’Antico Testamento, e per i motivi del rapporto tra uomo e Dio che vi sono raffigurati, mia anche per fondamentali soluzioni drammatiche e musicali, nonché timbriche: come rivela lo stesso organico orchestrale, dove agli strumenti tradizionali si aggiungono celesta, pianoforte, arpa, xilofono e vibrafono. Il grande coro che rappresenta la voce di Dio è accompagnato anche da un gruppo strumentale posto sul palcoscenico e forviato da organo, due corni, due trombe e un trombone. Del resto, la data apposta alla fine dell’abbozzo (13 settembre 1950) ha un significato simbolico. coincidendo con il compleanno di Schönberg, e precede di poco il completamento della partitura, 9 ottobre 1950. Poche settimane più tardi, il 3O ottobre 1950, il lavoro ebbe la sua prima rappresentazione assoluta al “”Teatro Eliseo di Roma.

Per il libretto, Dallapiccola si servì di ben trentequattro diverse edizioni del Libro di Giobbe, in varie lingue e con commenti vari. «Si trattava», spiegò l’autore, «di leggerle tutte, di assorbirne il contenuto. Poi avrei potuto provvedere alla scelta delle parole e a slabilire la forma generale della composizione. Si sa come sia delicata l’operazione che riguarda la scelta delle parole per il teatro musicale, qualora si tratti di estrarle da opere letterarie preesistenti. Delicata operazione, in quanto le parole – immobili sulla pagina stampata – dovranno assumere un’altra veste e un’altra dimensione, onde contribuire a creare il personaggio sulla scena. Per guanto riguarda la ‘forma’ mi era apparso subito che, in una sacra rappresentazione, una costruzione divisa in pezzi divisi l’uno dall’altro, a numeri, come si diceva una volta, sarebbe stata più che ammissibile anche nel nostro secolo. Una serie di quadri che si succedono l’un l’altro, seguendo lo svolgersi della vicenda». A una lingua volutamente antiquata, che se non giunge a impiegare il latino come nell’oratorio più antico rimane comunque solennemente rituale, si accompagna dunque un impianto formale rigorosamente suddiviso in parti. Che sono sette, tratte da diversi capitoli del Libro di Giobbe. Nel primo e nel terzo numero, la contesa tra Dio e Satana, Dallapiccola impiega due cori parlati a quattro voci, di cui è segnata solo approssimativamente l’altezza e che sono posti in luoghi diversi della scena: con questa soluzione il significato della contesa diviene chiaro e comprensibile al pubblico in tutta la sua enorme importanza drammatica. Ma nel sesto, punto culminante di tutto il lavoro,  la voce di Dio è rappresedntata a un coro cantato accompagnato dall’organo, mentre cinque strumenti a fiato posti dietro la scena intonano l’antico inno gregoriano Te Deum laudamus: e qui è la musica che s’incarica di conferire un accento particolare, progressivarnenle impetuoso, alla risposta di Dio alla domanda di Job. Job , i quattro messaggeri e i tre amici sono invece parti cantate: rispettivamente basso-baritono, impegnato in un declamato molto flessibile, soprano contrailo tenore e baritono (le parti dei tre amici debbono essere sostenute dagli stessi cantanti che interpretano i primi tre messaggeri). I,a scelta dei quattro messaggeri (n. 2) è scritta nella forma quasi tradizionale di un quartetto, prefigurata già nella narrazione biblica, dove ogni voce si sovrappone alla seguente prima ancora che questa abbia finito di parlare: come nota Dietrich Kämper nella sua monografia su Dallapiccola, «l’invocazione del nome Job (nona minore discendente: ‘ff gridando’), con cui comincia ogni entrata di un nuovo messaggero, presta al quartetto una parvenza di articolazione strofica». Anche la scena in cui gli amici invitano Job a pentirsi (n. 1) è un pezzo d’insieme, costruito però in una drammatica serie di episodi canonici rigorosi.

Job è il primo lavoro dallapiccoliano di una certa lunghezza basato su un’unica serie dodecafonica. Fra i tanti segni nascosti, perfino all’interno delle citazioni e delle allusioni di cui quest’opera è costellata, l’unità realizzata in virtú dell’estensione piú ampia del sistema dodecafonico, accettandone e rispettandone severamente l’articolazione e la logica nello spirito di chi sappia interpretare individualmente le tavole della legge, è un punto di arrivo non soltanto contposilivo ma anche simbolico. Ciò che permette la risposta alla domanda di Job e la sua salvezza dopo il pentimento «nella polvere e nella cenere» è il fatto che vi sia riconosciuta una perfetta identità di linguaggio: in altri termini. l’ordine dodecafonico è garante della possibilità di una comunicazione che superi le prove del tormento e le angosce del dubbio. Dio parla all’uomo in un linguaggio che può essere compreso e messo a frutto soltanto perché esiste questa identità. La rivelazione cui alla fine approda Job è dunque la conquista, che d’ora in avanti sarà decisiva, di un mezzo tecnico-espressivo e costruttivo capace di rendere definitiva questa risposta. Una rivelazione per Job quando tutto sembrava oramai perduto, una conquista lungamente preparata e attesa da Dallapiccola.


Zoltàn Peskò, Vittorio Sicuri / Katerina Ikonomou, Mariana Pentcheva, Salvatore Ragonese, Wolfgang Holzmair, Bruno Dal Monte, Ugo Pagliai, Vittorio Sicuri, Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Ente Autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Stagione autunnale 1991

Articoli