Luigi Dallapiccola – Canti di prigionia, per coro misto e strumenti
I Canti di prigionia, composti fra il 1938 e il 1941, sono per unanime riconoscimento il capolavoro della prima maturità di Dallapiccola. L’opera si articola in tre parti ma è concepita complessivamente come un ciclo unitario, sia sotto l’aspetto tematico (il trittico riunisce tre preghiere di prigionieri illustri della storia europea) sia dal punto di vista del linguaggio, alla cui base si trova un’unica serie dodecafonica.
Rievocando in uno scritto autobiografico la genesi dei Canti di prigionia, Dallapiccola individua l’impulso determinante per la sua nascita nella decisione di Mussolini, avvenuta il 1° settembre 1938, di indire anche in Italia una campagna razziale antisemita in appoggio a quella promossa dalla Germania hitleriana. L’indignazione per tale atto di Mussolini, che colpiva Dallapiccola anche nei suoi affetti più cari, lo spinse a cercare nella musica una via di espressione e di liberazione che, ben oltre la testimonianza di un individuo singolo, fosse anche una presa di posizione e un atto di impegno dell’arte di fronte agli eventi della storia contemporanea e più in generale a quelli di ogni epoca di oppressione e di limitazione della libertà. Nacque così uno dei più alti esempi di musica di protesta che, proprio per sottolineare il suo significato universale, si indirizzò verso testi di prigionieri del passato, in lingua latina: tre preghiere di «uomini che avevano lottato e creduto» elevate a simbolo dell’umanità intera (di qui la scelta del mezzo corale) e intensificate, con chiara accentuazione della componente religiosa, dalla concentrata densità dell’interpretazione musicale.
Come sempre in Dallapiccola, infatti, il problema maggiore riguardava la scelta del linguaggio con cui esprimere e comunicare uno stato d’animo così fortemente determinato. «Il sistema dodecafonico», egli scrive, «mi affascinava, ma ne sapevo così poco! Stabilii, comunque, una serie di dodici suoni alla base dell’opera complessiva e vi contrappuntai, a mo’ di simbolo, un frammento dell’antico canto della Chiesa, ‘Dies irae, dies illa’. Considerando la situazione politica generale […] non mi sembrava fuori luogo pensare al Giudizio finale. Ero convinto, inoltre, che l’impiego del ‘Dies irae’ a guisa di ‘cantus firmus’, avrebbe facilitato la comprensione di quanto volevo dire». Se la sequenza «Dies irae, dies illa» funge da avvio e da cerniera dell’intero discorso musicale, è nelle relazioni che si vengono a creare fra canto corale e accompagnamento strumentale che Dallapiccola concentra l’elaborazione compositiva. Al coro misto si aggiunge un complesso strumentale particolarissimo, costituito da 2 pianoforti, 2 arpe, 6 timpani, xilofono, vibrafono, 10 campane e una folta batteria (piatti, triangolo, tam-tam, tamburi, casse di varie dimensioni). Lo sviluppo integrale della tecnica dodecafonica vale come ideale punto di riferimento di uno stile impregnato di tensioni melodiche, contrappuntistiche e persino armoniche, quando non addirittura sospeso nel ritorno di atmosfere modali dal sapore arcaico; in altri termini, si annuncia già qui quella tipicissima appropriazione della dodecafonia da parte di Dallapiccola che consiste nella coesione di principi costruttivi e di valori eminentemente espressivi, talora in evidente continuità con la tradizione.
La prima parte, Preghiera di Maria Stuarda, si divide in una Introduzione strumentale e nel canto sulle parole della regina cattolica di Scozia, che Dallapiccola trae dalla biografia di Stefan Zweig. Le note iniziali del «Dies irae» sono contrappuntate dalla serie dei dodici suoni in un impulso ascensionale progressivo che prepara l’entrata del coro. Essa avviene all’inizio con il parlato senza timbro, cui segue il canto intonato a bocca chiusa, quello vocalizzato e quello spiegato, sul discorso intrecciato di imitazioni dell’accompagnamento strumentale.
L’Invocazione di Boezio (Dallapiccola usa qui due frasi del De consolatione philosophiae di Severino Boezio, il filosofo latino incarcerato da Teodorico a Pavia) è una sorta di «scherzo» il cui carattere «apocalittico» – scrive Dallapiccola «nell’introduzione strumentale è basato sul pp». Questa introduzione, in tempo «Prestissimo», Si potrebbe descrivere come una toccata strumentale, ribollente di canoni e di artifici contrappuntistici. Con l’entrata delle voci (solo femminili, soprani e contralti), l’atmosfera muta radicalmente per farsi più rarefatta e diatonica, adagiandosi in alcuni momenti su estatiche sospensioni modali.
Una meditazione sul salmo In te Domine speravi di Girolamo Savonarola fornisce il testo per l’ultima parte, il Congedo di Girolamo Savonarola. Essa è la più drammatica e intensa, ma anche la più ricca di passaggi e di sfumature. Dopo che all’inizio il coro (di nuovo a voci miste) canta all’unisono con i pianoforti, con un effetto quasi di fanfara, il dramma riesplode con tutta la sua forza, accentuando il contrasto fra voci e orchestra in pesanti accordi alterati, macerie fumanti di armonie tonali schiantate. Il passaggio all’episodio centrale («quoniam in Te Domine speravi») segna invece una trasfigurazione inattesa, un’apertura lirica di dolcezza sconfinata e ottenuta con elementare semplicità: un canone fra 4 contralti soli e 4 soprani soli, in stile poi fugato, che via via si espande anche alle voci maschili, ma per moto contrario.
Lev Markiz / Orchestra “A. Scarlatti” di Napoli della Rai – Radiotelevisione italiana, Coro da Camera del C.I.M.A. diretto da Sergio Siminovich
RAI – Radiotelevisione italiana, Sede Regionale per la Campania, Autunno Musicale a Napoli 1985