Ludwig van Beethoven – Sinfonia n. 8 in fa magg., op. 93
Allegro vivace e con brio Allegretto scherzando Tempo di Menuetto
Allegro vivace
L’Ottava Sinfonia in fa maggiore fu composta, con una rapidità per Beethoven insolita, tra l’estate e l’autunno del 1812, principalmente durante il soggiorno di cura a Teplitz (rimasto famoso per l’incontro con Goethe) e Karlsbad. Di ritorno da Teplitz, Beethoven si fermò per alcun tempo dal fratello Johann a Linz, dove sappiamo che dette gli ultimi ritocchi alla nuova opera. Il manoscritto originale, infatti, reca annotato: «Sinfonia Linz, nel mese di ottobre 1812». La prima esecuzione ebbe luogo alla Redoutensaal di Vienna il 27 febbraio 1814, nel corso di un concerto, come allora si usava, ponderoso assai, comprendente, oltre alla «Ottava» e cose minori, «La battaglia di Vittoria» e la «Settima». E proprio alla Settima Sinfonia l’«Ottava» si apparenta strettamente per circostanze di nascita e affinità di caratteri, tanto da essere unanimemente indicata come la sua sorella gemella.
Eppure, l’Ottava Sinfonia è stata a lungo considerata la cenerentola delle Sinfonie beethoveniane. Le minuscole proporzioni di questa «piccola Sinfonia», come la chiamò lo stesso autore, la piú breve fra quelle da lui scritte, che sembrano formalmente additare orizzonti settecenteschi, tratti umoristici se non addirittura burleschi, sullo sfondo di una indefinibile e inquietante stranezza, tra ambigua e capricciosa, disorientarono e delu-sero i contemporanei e i posteri che in essa non riconobbero piú il Beethoven titanico e mitico, patetico e «profondo», delle loro sclerotizzate visioni. Inevitabilmente, il ritorno ai modi di Haydn e Mozart (dopo l’«Eroica», dopo la «Quinta»!), fu considerato un segno, se non proprio d’involuzione, di stasi e di disimpegno creativo: un curioso incidente, nella migliore delle ipotesi una vacanza, dello spirito malinconico, del lottatore ben altrimenti vittorioso. Famoso rimase il grido piovuto dal loggione la sera della prima esecuzione: «Es fällt ihm schon wieder nichts ein!». «Ecco che è di nuovo privo di idee!»: testimonianza tremenda di insensibilità umana prima ancora che artistica.
Vi furono, è vero, nel corso dell’Ottocento, voci che si levarono in difesa della «piccola Sinfonia»: oltre a Wagner, che amò dirigerla sovente nei suoi concerti, quella di Robert Schumann, profondo conoscitore e ammiratore di Beethoven, che scrisse, dopo un’esecuzione dell’opera, il 10 dicembre 1840: «Fra le Sinfonie beethoveniane quella in fa è la meno eseguita e ascoltata: perfino a Lipsia, dove tutte sono conosciute e quasi popolari, si nutre qualche prevenzione proprio contro questa che per profondità umoristica non ha forse l’uguale fra le opere del Maestro. I crescendo, come quello verso la fine dell’ultimo tempo, sono rari persino in Beethoven, e quanto all’«Allegretto» in si bemolle non c’è niente da fare se non starsene zitti e felici… ». Valga, dunque, come indicazione di massima, il definirla la «Sinfonia del buon umore»; a patto di chiosare, con Riezler: «Ma che potenti pensieri, sono quelli che gl’ispirano questo buon umore! L davvero il buon umore di un dio; dal tema principale del primo movimento fino al Finale, ogni battuta ha uguale ‘ peso specifico ‘». Che nulla fosse piú estraneo a Beethoven dell’idea di un giocherellare aggraziato e sereno, lo dimostrano lo sforzo e la meditazione di una piena consapevolezza stilistica nell’intenzionale ricorso alle forme del passato (del «suo» passato, piú che di quello dei modelli classici), nel clima di ciò che il Lenz, acutamente, chiama «un nuovo ordine spirituale». Sforzo, si è detto: di nessun’altra Sinfonia, al di fuori della «Nona», sono rimasti tanti appunti, tanti abbozzi variamente elaborati, tante diverse stesure per i vari tempi; senza contare i ritocchi e le aggiunte sostanziali apportate anche dopo la prima esecuzione, come la soppressione di un’introduzione lenta al primo tempo, che si slancia cosí fin dall’inizio come «in medias res», o l’aggiunta, al medesimo primo tempo, delle trentaquattro battute della coda, con l’ultima intensificazione del tema principale culminante in un fff, un forte con tre f, come non era accaduto mai neppure nei vertici dell’Eroica o della Quinta. Altro che puro gioco musicale, altro che settecentesca gracilità costituzionale! L’Ottava è il frutto della completa maturità di Beethoven, un frutto prezioso e perfetto, una conquista dell’ultima postazione prima di spiccare il salto verso le regioni incontaminate dell’ultimo e piú tardo stile. Che cosa è del resto la «gioia, bella scintilla divina» della Nona Sinfonia se non una metafisica trasfigurazione del buon umore della «Settima» e dell'<<Ottava>>? Cosí, i quattro tempi di cui l’opera si compone sembrano scandire le tappe di un itinerario che dalla iniziale radiosità, colta per cosí dire di soprassalto, del primo tempo, «Allegro vivace e con brio», giostrato su un’unica figura tematica che si espande inarrestabile, giunge fino al calor bianco dell’ultimo tempo, spalancando profondità improvvise e inattese aperture di grande pathos, in un subbuglio di forme, ora Sonata ora Rondò, con due sviluppi e due riprese, e una finale, estesa coda, la quale finisce per proiettare la sua luce sull’intero movimento, anzi sull’intera opera. Proprio per preparare il contrastante squarcio di questo movimento finale, che dura da solo quasi quanto gli altri tre messi insieme, Beethoven alleggerisce il peso dei due tempi centrali, legandoli a un materiale tematico e a una temperie espressiva burleschi e ironici, ma soavemente leggeri. È noto che il secondo movimento, il celebre «Allegretto scherzando», si basa sul tema di un canone composto da Beethoven per Johann Nepomuk Mälzel, il perfezionatore del metronomo, in cui si allude, appunto, per burla, all’implacabile ticchettio del metronomo. Sull’accompagnamento «meccanico» dei legni, gli archi ricamano una linea melodica ora incisiva ora grottesca, come di chi perdesse e ritrovasse la strada, in continua variazione. Qui ogni riferimento al Settecento è francamente escluso: l’«Allegretto» — se ne accorse Berlioz — «è una di quelle creazioni alle quali non si può trovare né modello né corrispondente», il parto di una fantasia scatenata e allo stesso tempo controllata. Metteteci un po’ di teatrale serietà, e di tragedia vera, e avrete le Burlesche di Mahler.
Anche il terzo tempo, «Tempo di Menuetto», non nasce dalla volontà di riesumare una forma che, nella Sinfonia, Beethoven aveva già da tempo superato e sostituito con il piú moderno Scherzo. Il musicista ne accentua maliziosamente l’incedere pomposo e nel Trio crea un piccolo capolavoro dove la parodia si eleva inconsapevolmente a poesia: su un accompagnamento in terzine, vecchiotto e asmatico, dei violoncelli, i corni e il clarinetto risuscitano la melodia di un minuetto scritto da Beethoven nel lontano 1792. Va dato atto a Carli Ballola, la cui monografia beethoveniana sempre piú col tempo riluce, quando stupendamente aggiunge e conclude: «Il vecchio motivo, nella seconda parte, ci riserva la sua sorpresa piú incantevole, colorandosi magicamente d’iridescenze armoniche quasi brahmsiane: un intenerimento improvviso, quasi uno struggente e fuggevole senso di rimpianto per il ragazzo scontroso in codino e calze di seta della piccola Bonn, apparso per un istante alla memoria dell’uomo maturo e amareggiato».
Günter Neuhold / Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Concerti 1979/80