Ludwig van Beethoven – Quintetto in mi bemolle maggiore, per pianoforte, oboe, clarinetto, fagotto e corno op. 16

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Il Quintetto in mi bemolle maggiore di Beethoven

 

Per quanto pubblicato all’alba del nuovo secolo, nel 1801, dopo la svolta di affermazioni importanti come quelle della Prima Sinfonia e del Settimino, il Quintetto in mi bemolle maggiore op. 16, composto nel 1796-97, segna la fine più che l’inizio di un’epoca nella parabola creativa di Beethoven.

In esso coesistono i due aspetti che contraddistinguono la fase tipica dell’apprendistato, la consapevole emulazione e la ferma volontà di inserirsi senza fratture in un processo di crescita all’interno di un linguaggio consolidato e riconosciuto. Ma già nella scelta del modello, che si trova nel Quintetto K. 452 di Mozart (1784), analogo per organico e tonalità. Beethoven mostrava non soltanto di saper discernere le vette del genere ma anche di saperle affrontare senza timori reverenziali, forte di una capacità di rimodellare la forma senza stravolgerla con indebite forzature. Tutto, in quest’opera, sembra nascere all’insegna di una civiltà musicale guardata con affetto e ricreata con stile, nelle proporzioni di una misura nitidamente, serenamente classica.

Se il pianoforte è chiamato spesso a un ruolo di guida e comunque di connessione negli snodi musicali, il trattamento dei quattro strumenti a fiato – oboe, clarinetto, fagotto e corno – alterna passi di bravura concertante a uscite solistiche precisamente rilevate nella differenziazione timbrica e nella funzione espressiva. Pochi lavori consentono agli strumentisti di sentirsi altrettanto a proprio agio nella prestazione loro richiesta, e nello stesso tempo di avere la sensazione di essere parte importante di un discorso musicale ininterrotto, ognuno sempre da protagonista. Per quanto l’altezza del modello mozartiano rimanga ineguagliata sul piano dell’invenzione tematica, la scrittura tiene conto di una tecnica strumentale più varia e moderna, che il pianoforte sostiene da par suo, con vigore e brillantezza.

Formalmente l’opera si articola in tre movimenti. Il primo, preceduto da un Grave alquanto serioso che tuttavia non lascia presagire alcun dramma, presenta due temi nettamente sbalzati armonicamente, che si integrano in asciutte elaborazioni di salda coesione architettonica. È il momento per così dire strutturale della composizione, nel quale Beethoven dà prova di essere erede e continuatore del linguaggio dei suoi predecessori, accettando ed estendendo la convenzione. Segue un Andante di tenera cantabilità, effusivo e soave, di una serenità senza nubi, tutt’al più tinteggiato da alcuni chiaroscuri dei fiati, riverberati in un alone preromantico. Questa parentesi introspettiva conduce alla liberazione del Rondò finale, nel quale la briglia si scioglie, e incita il gioco delle parti, ad ognuna concedendo il suo momento di gloria con amabile condiscendenza e al tempo stesso con attento controllo dell’insieme.

Beethoven amava molto suonare questo Quintetto, che evidentemente rappresentava per lui un momento di distensione e di felicità creativa. Forse proprio per prolungare il piacere dell’esecuzione ne fece anche una riduzione per Quartetto con pianoforte e archi, mortificando non poco il carattere timbrico dell’originale, troppo intimamente legato alla sonorità morbida e vellutata dei fiati.

Wolfgang Sawallisch, Solisti dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia (Augusto Loppi, Vincenzo Mariozzi, Rino Vernizzi, Salvatore Accardi)

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