Ludwig van Beethoven – Concerto n. 4 in sol maggiore per pianoforte e orchestra op. 58

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Composto tra il 1805 e la fine del 1806, eseguito per la prima volta nel palazzo Lobkowitz nel marzo 1807 con l’autore al pianoforte e pubblicato nel 1808 con la dedica all’arciduca Rodolfo d’Austria, il Concerto in sol maggiore appartiene dunque al periodo centrale della produzione di Beethoven, tra l’Eroica e la Quinta Sinfonia, le Sonate Waldstein e Appassionata, i Quartetti Rasumowsky e la prima versione del Fidelio. Si differenzia però da queste opere per una ricerca di proporzioni più armoniose e concise, per una solidità di costruzione che pur mantenendo una forte intensità spirituale mostra anche una serena e fiorita compostezza, una stilizzata decantazione lirica. Ciò lo rende, nel suo genere, lontano tanto dall’epicità marziale del precedente opus 37 quanto dal grandioso impeto sentimentale profuso nelle incandescenti pagine dell’op. 73, l’Imperatore””; per riavvicinarlo invece, con marcata originalità, a modelli classici: esito personale di una felicità inventiva che se da un lato guarda per l’ultima volta alle sfolgoranti aperture mozartiane, ritrovando speciali assonanze nelle origini ideali del concerto solistico stesso, dall’altro lato getta semi per la futura esplosione concertistica romantica, da Chopin a Mendelssohn a Brahms, ma soprattutto Schumann.

Il primo movimento, in tempo Allegro moderato, si apre con un breve motivo ad accordi ribattuti esposto dal pianoforte solo e sviluppato ampiamente dall’orchestra con incisiva determinazione. Qui Beethoven combina con prevedibile flessibilità lo schema della doppia esposizione cara al concerto classico (prima da parte dell’orchestra, poi da questa assieme al solista) con una nuova visione dei rapporti fra solista e orchestra; nella quale l’importanza del pianoforte si afferma non solo nella anticipazione isolata del motto tematico (di cui si era avuto un solo precedente nel Concerto in mi bemolle magqiore K. 271 di Mozart) ma anche nel segno di una volontà individuale potenzialmente assoluta ma a lungo trattenuta prima di erompere in tutta la sua forza. Ribaltando le funzioni, Beethoven lascia che sia l’orchestra ad esaurire la prima esposizione tematica, per rilanciare e riequilibrare poi la tensione allorché, simmetricamente, è il solista a sviluppare con smaglianti mezzi tecnici il secondo tema introdotto questa volta dall’orchestra. La sezione centrale stempera questa tensione in un clima meno perentorio e più assorto, qua e là caratterizzato da sfumature melanconiche anche nei passaggi brillanti, nello sfavillio delle ornamentazioni (scale e trilli) e delle lievitazioni melodiche. L’andamento di marcia è via via stilizzato, di fatto sospeso (vedi la rinuncia in tutto il primo tempo ai timpani) e si trasforma in un caleidoscopio di suggestioni giocate nel fitto dialogo fra solista e orchestra. La cadenza interamente scritta da Beethoven stesso (che ne compose pure una seconda) è strettamente imparentata col mondo altero e romanticamente acceso dell’Appassionata, ma costituisce più una punta isolata di superba monumentalità che una incrinatura delle salde proporzioni fissate nell’esposizione e concordemente ribadite dalla affermativa ripresa.

La sintesi operata da Beethoven con ardita concezione nel vasto primo movimento si spezza nel breve e intenso Andante con moto, quasi una rimeditazione a prospettive ribaltate del significato dell’inciso che aveva aperto il Concerto. Qui due mondi appaiono improvvisamente contrapposti in urto frontale, eminentemente tragico. Da un lato la violenza dell’orchestra nel rigoroso, inflessibile, fatalistico disegno staccato degli archi, dall’altro il raccoglimento intimo del pianoforte con la sua tenera e sognante cantilena a mo’ di corale: un’ampia frase legata che si scioglie in supplica. Di nient’altro è fatto questo movimento, ben presente a Schumann nel calibrare le proporzioni del suo Concerto. Ma non di un Intermezzo lirico qui si tratta, bensì di una fàustiana “”discesa alle Madri””,

da cui si origina, con un colpo d’ali, una nuova disposizione dello spirito.

Essa si manifesta nel Finale che attacca inatteso senza cesure, in pianissimo, a sottolineare un repentino cambiamento di umore, e forse anche di valori. Nella vivacità del Rondò, pieno di brio e di slancio, sereno e luminoso nella leggerezza, vuoi celebrarsi una nuova armonia tra pianoforte e orchestra, ora con gli strumenti impiegati solisticamente in dialogo fra loro. I ritmi giocondamente saltellanti, gli arpeggi ampi e fantasiosi che sembrano voler abbracciare spazi sempre più pieni, le sottigliezze e le sfumature del nobile fraseggio non contrastano con il piglio e con il dinamismo decisamente sinfonici dell’orchestra, ma si uniscono anzi ad essi in un rito liberatorio che esorcizza non lontani fantasmi. Le seduzioni di un divertissement cavalleresco possono ben essere l’altra faccia della Sfinge: simbolo dietro al quale pare celarsi il tesoro meraviglioso del più enigmatico fra i Concerti di Beethoven.


Jeffrey Tate / Mitsuko Uchida, Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione sinfonica 1994-95

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