Esce in Germania lo studio incompiuto di Adorno su Beethoven
Le “conturbanti” contraddizioni del grande musicista scatenano la passione indagatoria del filosofo che trova però uno scoglio insuperabile nella “Missa Solemnis”. E così il saggio rimane a metà
Il libro su Beethoven che Adorno vagheggiò per tutta la vita, e che non completò mai, esce ora postumo come primo volume del lascito dei suoi scritti, a cura di Rolf Tiedemann, per iniziativa dell’editore Suhrkamp di Francoforte: 273 pagine di testo, più altre cento di note e apparati critici perfetti. Non si tratta, come è intuibile, di un libro vero e proprio nel senso della compiutezza, né tanto meno di quell’«opera filosofica» che Adorno cominciò a progettare nel 1937 e che si portò dietro nell’esilio americano, continuando a lavorarci fino alla morte; bensì di una raccolta di articoli, saggi, note, notizie e appunti ordinati cronologicamente, tali da indicare, se non interamente percorrere, la via che Adorno aveva intrapreso per lasciare una testimonianza organica del suo pensiero su Beethoven, dal punto di vista musicale, estetico e appunto filosofico. Di questo materiale, in gran misura finora inedito, fanno parte anche scritti già ampiamente noti e da tempo fondamentali nella bibliografia adorniana e beethoveniana: basti citare fra questi il più famoso e discusso, quel saggio sulla Missa solemnis intitolato Verfremdetes Hauptwerk («Straniamento di un capolavoro», 1957-1959) che può essere ritenuto, a ragione, il punto di svolta — o meglio di non ritorno — nel cammino che doveva portare, e non portò, alla stesura del libro.
In una nota premessa alla pubblicazione del saggio nel volume Moments musicaux (1964) Adorno precisava: «Straniamento di un capolavoro appartiene al complesso del lavoro filosofico su Beethoven progettato già dal 1937. Fino a ora esso non è giunto a stesura, soprattutto perché gli sforzi dell’autore si sono sempre incagliati sulla Missa solemnis.
Egli ha pertanto quantomeno cercato di chiarire il motivo di quella difficoltà, ossia di precisare la questione, senza far credere di averla in qualche modo risolta». Il libro nel suo insieme dimostra inequivocabilmente che lo scoglio della Missa solemnis fu la causa principale dell’interruzione del lavoro: giacché proprio l’impostazione filosofica data dall’autore all’argomento si scontrava con la realtà non solo di quest’opera ma anche più in generale dell’intero problema del cosiddetto tardo stile di Beethoven.
Il libro su Beethoven avrebbe dovuto rappresentare la verità di un assioma: la progressiva evoluzione della musica di Beethoven, e dei contenuti che vi erano sottesi, proveniva da un impulso socio-politico di cui Beethoven era inconsapevole ma certo portatore, e che in lui si sublimava sotto l’aspetto ideale, umano ed etico. Beethoven, con la sua musica intessuta di forti tensioni, di continui superamenti non solo formali, di linearità e determinazione finalizzata a una meta, rappresentava la forza del progresso dell’uomo in seno a una società indirizzata verso l’abbattimento delle distinzioni di classe, in una parola marxista; anzi, nella filosofia della musica di Beethoven era contenuta, all’interno della società borghese, la quintessenza di una visione liberatoria e vittoriosa dei valori ideali di una nuova società: di più, la dialettica della sua musica era il simbolo della dialettica politica, dell’affrancamento dell’individuo dalla società classista ma anche della restituzione della società ai valori della collettività, fatta di individui realizzati attraverso la loro opera. Era l’utopia di Adorno, e non di lui solo: utopia che proprio grazie all’esempio di Beethoven diventava, filosoficamente, e fino a un certo punto, realtà.
L’impatto brusco, scontroso, con il tardo stile, e con la Missa solemnis in particolare, a lungo differito sul piano della trattazione estetica e teorica (ma non su quello tecnico-analitico, come il nostro libro a iosa dimostra, rivelando la tempra del profondo conoscitore di musica che fu Adorno), condusse a un vicolo cieco: qui il progresso si arrestava, e Beethoven indicava un ripiegamento e un ripensamento della’ tradizione che, se sul piano artistico e perfino estetico poteva essere spiegato e apprezzato, su quello filosofico produceva una stridente contraddizione, configurando una sorta di rinuncia presso alla meta.
E qui Adorno si arenò: drammaticamente. La sua coscienza «morale» gli impediva di non notare il cambiamento, anzi gli imponeva di interrogarsi a fondo sulla sua natura, le sue implicazioni, i suoi risultati; ma dal punto di vista filosofico, l’assioma diventava insostenibile: Beethoven non era il punto di arrivo di un’evoluzione esemplare di un’idea del mondo, dell’individuo e della società, quella nella quale Adorno credeva e per la quale si era sempre battuto. Beethoven, il Beethoven epico dell’Eroica, del Fidelio, dei Quartetti Rasumowsky, eroe della rivoluzione e della libertà, lo aveva tradito; per di più attingendo, nelle ultime opere, vette artistiche tanto indiscutibilmente alte quanto «negative» erano le premesse filosofiche su cui si basavano. Fino al recupero del «senso religioso», del contrappunto centrifugo, nella Missa.
Per questo il libro fu abbandonato. Ma non per questo Adorno cessò di interrogarsi sull’enigma di quella splendida emblematicità tradita. Grazie alla ricostruzione di questo cammino in tutte le sue tappe, dalle prime emozioni infantili annotate con stupore alle ultime faticose distinzioni critiche, la vicenda intellettuale e ideologica di Adorno assume a sua volta una splendida emblematicità: drammatica, se non tragica, nel modo in cui egli per così dire rimprovera a Beethoven gli esiti involutivi della sua arte, e nello stesso tempo letteralmente lo glorifica come artista creatore. La dialettica che diviene contraddizione, e non cava le gambe di fronte all’evidenza delle cose che non sono come si vorrebbero, ma comunque «sono», attraenti e conturbanti: ecco il centro della passione beethoveniana di Adorno. Questo bellissimo libro non solo contiene una miriade di osservazioni, analisi, intuizioni e affermazioni che allargano enormemente la nostra riflessione su Beethoven, ma è anche una sorta di metafora della illusione delle ideologie, dell’amaro sapore delle utopie per le quali si è disposti a credere e a ingannarsi, ma non a mentire e a ingannare, rinnegandola, la verità.
da “”La Voce””