L’opera in scena, Mal di romanzo

L

Letterario, con una forte componente “lirico-onirica”. Il teatro di Ciaikovskij, nonostante la sua generosa vena melodica, ha una spiccata componente intellettualistica.

Sostiene il geniale regista tedesco Peter Stein che per capire il teatro di Cajkovskij occorra affrontarlo globalmente, in una visione drammaturgica d’insieme che abbracci almeno le tre grandi opere della maturità, ossia Evgenij Onegin (Mosca, 1879), Mazeppa (Mosca, 1884) e Pikovaja Dama (San Pietroburgo, 1890): ed è quanto Stein si appresta finalmente a fare ahimè non in Italia, bensì all’Opera di Lyon. Stein individua nell’autore russo una costante psicologica, l’elemento che potremmo chiamare “”lirico-onirico””, e una caratteristica formale di audace modernità, la discontinuità o sospensione drammatica scentrata, che lo allontana tanto dall’opera-melodramma franco-italiana quanto dal dramma musicale tedesco (“”scene liriche”” sono chiamate le “”stazioni”” dell’Evgenij Onegin), nonché, aggiungeremmo noi, dal crudo realismo del teatro nazionale russo del cosiddetto “”Gruppo dei Cinque””. Vi è in Cajkovskij drammaturgo, responsabile primo dell’adattamento scenico delle sue opere, un che di letterario se non di intellettualistico (non dimentichiamo da che altezza provenivano le fonti, Puškin nientemeno) e di ambiguo, che contrasta in modo estremamente fertile con la copiosa generosità e naturalezza di una musica non meno sensibile al colore e all’ambientazione che alla melodia, e formalmente fluttuante tra scene solistiche e d’insieme, pezzi chiusi, statici, e brusche accelerazioni dinamiche di slancio quasi sinfonico.
Era consuetudine un tempo considerare come normative le edizioni provenienti dai Paesi slavi (la ex-Jugoslavia, per esempio, molto presente negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso), dall’est (Polonia, Bulgaria: fece una certa impressione negli Ottanta la tournée nei teatri emiliani dell’Opera di Sofia diretta dall’ottimo Emil Tchakarov), e dalla Russia in particolare: i vari Bol’šoj (famosa la spedizione alla Scala del 1964, con la regia del celebre Boris Pokrovskij), Marinskij-Kirov (soprattutto da quando ne è direttore l’iperattivo Valery Gergiev, mente e braccio di una continua esportazione mondiale con risultati alterni), Malyi o Elikon hanno portato sovente in Occidente le loro produzioni cajkovskiane, con orchestre e cantanti che hanno questa musica nel sangue e spettacoli di buon carattere medio, curati nei dettagli linguistici originali e stilisticamente attendibili nel complesso. Si capisce come per loro Cajkovskij sia una specie di pane quotidiano di uso del tutto domestico e come tale venga presentato a ogni pubblico, senza andare troppo per il sottile. Questa tradizione costituisce senza dubbio un punto di riferimento importante proprio per la sua normalità, ma non esaurisce tutte le possibilità offerte a una messa in scena che voglia andare, sia psicologicamente sia drammaturgicamente, più in profondità ed estrarre dai doppi fondi delle opere spunti e tesori di palpitante attualità. Lasciando da parte Evgenij Onegin, il capolavoro più noto di Cajkovskij che richiederebbe un lungo discorso a sé, ci soffermeremo su Pikovaja Dama (La dama di picche: dove il titolo allude sia alla carta da gioco sia alla figura della Contessa deus ex machina della vicenda), rilevando anzitutto che quest’opera in tre atti e sette quadri è quella che ha avuto le proposte teatrali più avanzate e radicali, molteplici e talvolta attirate nell’orbita di un vero e proprio “”teatro di regia”” moderno. Benché la prima rappresentazione italiana avvenisse alla Scala il 18 gennaio 1906, con scarso successo, la sua rappresentazione al Teatro Comunale di Firenze il 26 dicembre 1952, durante la gloriosa gestione artistica di Francesco Siciliani, non fu soltanto una autentica scoperta ma segnò anche l’inizio di quella che potremmo definire la Renaissance del teatro di Cajkovskij in Italia. Le testimonianze e le documentazioni sonore che ci sono rimaste parlano chiaramente di un modo tutt’altro che convenzionale di vedere nella Dama di picche una sorta di dramma dell’allucinazione giocato a metà strada fra realtà e sogno, raccontato in sequenza serrata, con ritmo teatrale incalzante: direttore Artur Rodzinski, regia di Tat’jana Pavlova, protagonista Gianna Pederzini, accanto a giovani del calibro di Ettore Bastianini e Sena Jurinac. E per restare a Firenze, proprio qui la tendenza a una lettura estrema, parossistica, nella quale l’ossessione e l’allucinazione divengono alienazione tipicamente contemporanea, si realizzò nella discussa messa in scena di Lev Dodin e David Borovski (Maggio Musicale 1999, direttore un pallido Semyon Bychkov): lo spettacolo si snodava come un lungo flash back che aveva inizio dall’epilogo dell’opera (rifacendosi alla conclusione della novella di Puškin, dove Hermann impazzisce invece di suicidarsi come nel libretto) e vedeva appunto Hermann in un letto del famoso ospedale “”Obuhov”” di San Pietroburgo intento a rivivere le fasi della sua progressiva follia, da cui, in un susseguirsi ininterrotto di visioni, prendeva corpo la trama della vicenda. Si evidenziava così l’aspetto per così dire di critica sociale sotteso all’opera: Hermann, giovane e povero ufficiale, intravede nella vincita al gioco delle carte un’occasione, l’unica, di arricchimento, di riscatto e di scalata all’alta società aristocratica, e per questo non esita a tentare il tutto per tutto perdendosi. Altre regie hanno inteso invece mettere in primo piano l’altro tema, più convenzionale, dell’amore appassionato ma distruttivo di Hermann per la giovane e bella Liza, nipote della Contessa, vittima sfortunata di una tragedia che la trascende e alla fine la travolge: di questo genere era la regia un po’ oleografica ma assai coinvolgente di Andrej  Konchalovskij (scene bellissime di Ezio Frigerio) per la ripresa alla Scala del 1990, indimenticabile per la direzione incandescente, vulcanica di Seiji Ozawa. Punto di forza centrale dell’interpretazione scenica della Dama di picche è però il personaggio spettrale della Contessa, vera manna per i registi che con lei hanno modo di sbizzarrirsi dal demoniaco al sensuale, dal lugubre al grottesco, dal leggendario al misterioso, dal realistico al simbolico; tanto più che il ruolo ha da sempre affascinato per la sua statura drammatica cantanti-attrici di primaria importanza, magari giunte gloriosamente alla fine della carriera o sul viale del tramonto: tra quelle che abbiamo ascoltato di persona, indelebili rimangono i giganteschi fantasmi, ora di ghiaccio ora di fuoco, di Magda Olivero (Firenze 1974), Maureen Forrester (Scala 1990), Helga Dernesch (Firenze 1999) e soprattutto di una imperiosa Marta Mödl (Monaco 1978, regia di altissima classe di Günter Rennert). Mentre per quanto riguarda Hermann, difficile credere che l’effusione disperata e al tempo stesso lucida della vocalità ancora sontuosa di Placido Domingo (Monaco 2002, allestimento superficiale e d’effetto di David Alden) possa venir superata da altri: con una recitazione che da sola costruisce un’intera regia.
La dama di picche è insomma opera che con la sua vivacità teatrale poliedrica dà molte possibilità ai registi in vena di interpretazioni personali, soprattutto se di scuola non russa. Oltre a Richard Jones (Londra 2000), citeremo fra questi l’edizione firmata a Glyndebourne nel 1992 da Graham Vick, pubblicata anche in video. Vick era allora un enfant prodige della regia di scuola inglese (inglese anche il direttore, il freddino Andrew Davis), e la sua impostazione risultava immersa in un clima da incubo espressionista, con prospettive sghembe e richiami allegorici che cancellavano ogni riferimento realistico o “”nazionale””: non una vicenda russa, ma una storia universale, paradigmatica, senza spazio e senza tempo. Non si trattava però di una visione insolita. Molte realizzazioni dei teatri tedeschi puntavano su un’analoga ambientazione espressionista, creando quasi una tradizione visiva per un’opera assai amata da quelle parti allora, sia di qua sia di là del Muro: così Götz Friedrich a Berlino Ovest, Hans Neuenfels a Berlino Est, Rudolf Noelte a Stoccarda, Willi Decker a Dresda, mentre Monaco restava più fedele a una cifra di astratta eleganza, per molti anni rappresentata da Rudolf Hartmann e Günter Rennert. La dama di picche è comunque un’opera che esalta il teatro e come poche non ne può prescindere: da questo punto di vista si pone all’avanguardia nel solco del melodramma dell’Ottocento, proprio perché prefigura angosce e solitudini non storiche ma esistenziali, proiettate nel futuro e sospese sull’abisso. Ma è anche opera prismatica, che se da un lato anticipa le inquietudini di Prokof’ev e Šostakovic, dall’altro ha salde radici nella tradizione di un’anima e di un popolo, di una cultura, di una storia e di un’epoca, oltre che di un grande musicista. Non è forse un caso che la misura più giusta e illuminante, più equilibrata e convincente  di cui si abbia ricordo la si trovi nello spettacolo curato per la regia dal direttore d’orchestra Jurij Temirkanov quand’era direttore principale del Marinskij-Kirov di Leningrado-Pietroburgo: spettacolo unitario e coeso, dove davvero la musica di Cajkovskij diveniva specchio di una drammaturgia compiuta, insieme crepuscolare e aurorale. Chissà se Jurij Temirkanov, che dopo la morte di altri notevoli testimoni di questa partitura come Vladimir Delman (Bologna 1983) e Yuri Ahronovitch (Genova 1978) è oggi il più colto direttore russo in attività, saprà trovare la stessa collaborazione nell’estraneo e assai ambizioso, trasgressivo Stephan Medcalf, nella prossima occasione di udire, alla Scala, quest’opera sempre sconvolgente dal vivo in teatro. 

Classic Voice Opera n. 23 febbraio/marzo 2005

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