Londra: il ciclo beethoveniano di Claudio Abbado

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Per Claudio Abbado, nella sua carriera, l’integrale delle Sinfonie e dei Concerti di Beethoven diretti in aprile a Londra è destinata a rimanere probabilmente una svolta determinante. E non soltanto perché era la prima volta che Abbado affrontava un’avventura così impegnativa e complessa. Chi conosce Abbado sa che nelle sue scelte non c’è mai nulla di accidentale o di casuale: tutto sembra rispondere a una logica prefissata, tanto meticolosa e accurata quanto approfondita e rimeditata. E giunto ora il momento del grande confronto con la somma tradizione sinfonica, il vertice Beethoven, appuntamento ineludibile per un direttore che ambisca ad essere davvero completo e compiuto. E Abbado, che non ama le mezze misure e che fino a questo momento aveva eluso anche discograficamente l’incontro, si getta nell’impresa addirittura con un ciclo integrale, pianificando e preparando magistralmente l’avvenimento: sceglie una platea che visibilmente lo ha caro (il pubblico esigente ma non schizzinoso di Londra), si giova di uno strumento duttile e plasmabile (la London Symphony Orchestra), chiama a sé Maurizio Pollini insieme con amici di più recente acquisizione (il violinista Shlomo Mintz, il violoncellista Lynn Harrell, Elisabeth Connell), per allargare il già vasto panorama beethoveniano (Ah perfido!, Meeresstille und gliickliche Fahrt, Romanze varie, le Ouvertures). Le sue qualità principali – chiarezza di analisi, senso vigoroso dell’insieme, capacità di tenere in pugno il filo del discorso rilevandone i nodi cruciali, virtuosismo direttoriale ormai giunto a piena maturazione – rifulgono naturalmente anche in questo caso. Ma è chiaro che nei confronti di Beethoven, autore oltretutto legato a modelli interpretativi storici, ciò può essere soltanto un punto di partenza, un viatico importante per una ricerca che deve andare assai oltre. Abbado sa – fatto del resto comune ai direttori della sua generazione – di non possedere per naturale disposizione o per eredità diretta il cuore dell’arte beethoveniana, la sintesi immediata delle proporzioni e degli equilibri dello stile classico: il suo è un lavoro di scomposizione e di ricomposizione paziente, attento, concentrato, ma nello stesso tempo estremamente partecipato, pieno di calore e di sentimento. La sua visione di Beethoven non è né classica né romantica, ma neppure, come forse Abbado avrebbe teso a fare alcuni anni fa, fredda e distaccata, razionale e “”costruita””. Essa cerca, con coraggio estremo e con abbandono inconsueto, quella verità poetica e quei significati espressivi oltre la densità del linguaggio e la problematicità della `forma che costituiscono l’essenza più intima e difficile di questi variegati capolavori.

È naturale che in Abbado ciò avvenga con i tratti di un lavoro in corso. E allora bisogna distinguere. Sinfonie come la Quarta e l’Ottava, che Abbado frequenta ormai da anni, hanno raggiunto in questo ciclo un livello di definizione e di evidenza pressoché perfetto nel quadro della sua poetica interpretativa: e si tratta di livelli in assoluto ragguardevoli, sia per profondità di penetrazione che per rilivo espressivo. Più problematico invece dire a quali esiti sia pervenuto finora Abbado con la Nona, di cui ricordavamo soltanto un’esecuzione viennese (con i Wiener Symphoniker) di alcuni anni fa. Abbado la dirige in modo acceso, talvolta nervoso, incalzante, ma anche asciutto e secco; i tempi sono molto veloci sia nel primo ché nel secondo movimento, e accennano a distendersi solo nell””`Adagio molto e cantabile””, per poi tendersi di nuovo sensibilmente nell””`Andante moderato”” e sfociare nella preparazione ricapitolativa del Finale. Si avverte che Abbado è consapevole della grandiosità di motivi e di gesti espressivi presente nella partitura e risoluto anzitutto a non perdere di vista il filo del disegno generale, la coerenza del senso globale. Egli accentua i momenti culminanti del processo formale subordinandoli alla svettante apertura sinfonico-corale del Finale, che ne è 1’apoteosi e insieme la trasfigurazione: talché la Nona appare veramente ispirata alla méta di una drammatizzazione della sinfonia e sotto questo profilo un’opera aurorale, anziché il punto di arrivo e il vertice del sinfonismo dell’età classica. All’indubbia modernità intellettuale di questa interpretazione di Abbado, realizzata col perfetto concorso della London Symphony e dei solisti Connell, Hodgson, Araiza e Luxon (più discutibile la prova del coro, poco omogeneo e compatto), sembra mancare qui ancora un pizzico di abbandono e di commozione, quel tanto di indugio e di contemplazione capace di svelare le profonde suggestioni emotive di passaggi apparente-mente perifierici e devianti rispetto alla lunga gittata dell’edificio sonoro.

Sono cose, queste, che un direttore come Abbado – sempre che la nostra impressione sia giusta – saprà conquistare del tutto ritornando a considerare, magari già dall’immininente ciclo coi Wiener Philharmoniker e nella prossima integrale discografica, gli immensi tesori racchiusi nella monumentale partitura. Oppure si tratta di scelte volute, già individuate e precisate. Giacché per esempio la Pastorale, altra partitura non consueta nel passato direttoriale di Abbado, è apparsa percorsa da fremiti dolcissimi, cesellata nei particolari e ammantata da sopraffine raffinatezze timbriche, pur rimanendo lontana – e ci sembra sia giusto così – da suggestioni puramente descrittive e naturalistiche.

Quanto a Maurizio Pollini, interprete dei cinque Concerti e della Fantasia corale, sarebbe sufficiente dire che è stato all’altezza della sua fama se la sua fama avesse riscontro da noi in un’attività stabile o in una presenza costante: cosa che a quanto pare non è. Diremo perciò che abbiamo ritrovato con vera, grande emozione un artista giunto all’apice della maturazione sia sotto l’aspetto tecnico-strumentale che sotto l’aspetto interpretativo: un artista nel quale la stessa tensione spasmodica di natura quasi morale si scioglie nell’evidenza della comunicazione, nel nitore di proposte poetiche che divengono anche irrefragabile fatto ermeneutico. Pur inserendosi convenientemente nella visione beethoveniana di Abbado, suo partner ideale, Pollini ha ricostruito da par suo, concerto dopo concerto, le tappe di un’immagine d’interprete ormai consegnata alla storia, ma sempre viva.

Musica Viva, n. 6 – anno VIII

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