Lohengrin alla Scala

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Sul Lohengrin, lavoro centrale nella creazione di Wagner (settima delle sue quattordici opere teatrali, ultima della prima fase della sua produzione e separata da undici anni dalla successiva, che sarà Tristano e Isolda, non considerando, s’intende, la vigilia e la prima giornata dell’Anello del Nibelungo), grava da sempre nella nostra cultura un curioso equivoco: che si tratti dell’opera più “”italiana” o “”italianizzante”” fra quelle composte da Wagner. Se ciò sia da addebitare al fatto, notissimo, che il Lohengrin fu la prima opera di Wagner ad essere rappresentata in Italia (Bologna, 1° novembre 1871), ovvero a una tradizione che proprio al Lohengrin eseguito in italiano ha legato nomi di grandi, mitici cantanti, oppure, ancora, alla convinzione specifica su una presunta italianità della musica del Lohengrin, non è mai apparso ben chiaro. Passaggio obbligato di questa opinione consolidata sono le annotazioni che Giuseppe Verdi stilò in occasione delle rappresentazioni bolognesi del 1871: annotazioni le quali, se sul piano del giudizio critico non tornano certo ad onore di chi le vergò, nella sostanza non furono mai da lui ripudiate. In una famosa lettera inviata a Giulio Ricordi alla notizia della morte di Wagner, dopo espressioni dì sincero sconforto, il Grande Vecchio aggiungeva infatti: “”La sua musica, per quanto lontana dal nostro sentimento fatta eccezione pel solo Lohengrin, é musica dove c’è vita, sangue e nervi; dunque é musica che ha diritto di restare””.

Se a Verdi era forse ancora lecito avvicinare il Lohengrin al sentimento proprio della musica italiana, soprattutto per il peso che in esso hanno i puri valori melodici e certi stessi momenti culminanti in forma chiusa (il racconto di Elsa al primo atto, quello di Lohengrin nell’ultimo), assai meno comprensibile è il perdurare di una tradizione che, seppur talvolta guidata da obiettive necessità, non si spiega ragionevolmente se non avanzando un’ipotesi.

La musica del Lohengrin non era sentita veramente come quella più vicina alla sensibilità degli italiani (e come avrebbe potuto?), ma era quella più disponibile ad esser ridotta a oleagrafica convenzione sia dell’ opera in se stessa, sia del Romanticismo tedesco quale lo si percepiva da noi estranei: irrazionalismo, aure leggendarie e mitiche, nebbie nordiche, incomprensibili presagi, senso cosmico della catastrofe (non il patetico amore e morte melodrammatico), simbolismo portato all’eccesso (in primo luogo il cigno, naturalmente). Dovendo accettare e trovare, in Wagner, un’opera che si prestasse a questa assimilazione (si pensi soltanto alla traduzione italiana, paradigmatica, del De Marchesi), questa poteva essere soltanto il Lohengrin: e così difatti fu.

Anche come opera in se stessa, abbiamo detto: dato che nel Lohengrin la drammaturgia segue, almeno apparentemente, schemi tradizionali, per esempio nella costruzione delle scene e nella distribuzione dei personaggi: personaggi “”buoni”” da un lato (tenore e soprano, legati da impossibile amore e oggetto di intrighi politici), personaggi “”cattivi”” dall’altro (baritono e mezzosoprano); con il Re, incarnazione della figura paterna del monarca saggio e benevolo, nel mezzo. E quanto alla struttura dell’opera: un Preludio a se stante, benchè musicalmente in stretta relazione con il materiale dell’opera, vaste scene corali ali’ inizio e alla fine degli atti, duetti e concertati, e così via; senza contare le forme chiuse, persino, nella presentazione dei due personaggi principali, due episodi assimilabili alla “”arie dì sortita”” del melodramma tradizionale.

Quel che però sfuggi, sia nei contenuti che nelle forme, fu la reale novità della concezione wagneriana, tesa appunto a servirsi di essi, in modo sottilmente ambiguo, nella direzione della rivoluzionaria poetica del dramma musicale: sia conferendo ininterrotta continuità all’azione e spessore inedito al tessuto Compositivo e in particolare a quello sinfonico dell’orchestra, sia sfruttando in larga misura le possibilita del Lohengrin, la declamazione e la melodia infinita, come mezzi in grado di conferire unità e organicità al processo drammatico-musicale. Non è certo un caso che Verdi postillasse, a mo’ di conclusione: “”L’azione corre lenta come la parola: quindi noia””. Come non è davvero un caso che da noi il meno compreso e quasi mal sopportato, al punto da venir sovente sforbiciato, fosse il secondo atto, quello che Wagner compose per ultimo e che già prelude in modo soprendente al mondo oscuro e lacerato dell’Anello e del Tristano, ponendosi come il punto di arrivo di quanto egli aveva concepito fino ad allora e il punto di partenza di quanto avrebbe realizzato dopo (non soltanto in senso figurato: è di li che nascono certi simboli musicali dell’Anello, come la scala discendente del motivo della lancia di Wotan o le contorsioni cromatiche del regno notturno dei Nibelunghi, o, ancora, le cantilene infinite di strumenti solisti quali il clarinetto basso e il corno inglese).

Ricercare, al di là delle convenzionì e delle false tradizioni, la vera assenza, profondamente tedesca e autenticamente romantica, del Lohengrin, emblema massimo, sia musicalmente che drammaticamente, del misticismo wagneriano (e sia pure di un misticismo non ancora divenuto poetica compiuta, vivente), è stato il filo rosso della realizzazione inaugurale dell Scala, affidata a Claudio Abbado per la parte musicale e a Giorgio Strehler ed Ezio Frigerio per quella scenica: circostanza che ha fatto di questo spettacolo un evento atipico tanto nella storia dell’ interpretazione “”italiana”” di quest’opera quanto in quella, owiamente assai diversa, dei teatri tedeschi. Soprattutto l’impianto scenico ideato da Frigerio sembrava voler fare tabula rasa con le rappresentazioni convenzionali, di solito tendenti a evidenziare il simbolismo soprannaturale della vicenda del Lohengrin: qui tutto appare realistico, massiccio, plastico, immanente; sul piano figurativo, militaresco e sacralizzato. Un’oscurità inquietante, profonda (anche in senso spaziale) domina la scena da capo a fondo: sottolineata, ma non dialetticamente, dall’irruzione lancinante della luce, una luce fredda, abbagliante e livida, che non illumina o riscalda ma pare quasi uno squarcio della tenebra, una degenerazione cromatica della notte. Intuizione stupenda, e davvero “”illuminante””. Come vincente è l’idea di confinare l’apparizione del cigno sullo sfondo, oltre e fuori la scena, in un impermeabile isolamento sottolineato dall’ampia vetrata che lo separa dalla scena, attraverso la quale lo sguardo penetra, quasi con stupore, sulla visione di sogno della Schelda e del Graal soffusamente rischiarati da albori crepuscolari; e quando Lohengrin appare, egli è già al di qua, separato dal suo elemento vitale e immesso come di colpo in una dimensione nuova, aspra ed ostile, governata da leggi ineluttabili alle quali egli stesso dovrà soccombere.

Paradossalmente, la forza della regia di Strehler deriva proprio dal trovarsi di fronte a una traccia segnata, a spazi scenici e psicologici nettamente determinati, all’interno dei quali egli agisce con profonda immedesimazione nelle ragioni della musica, creando di essa un corrispettivo visivo di totale pienezza espressiva. Mai Strehler è così unico come quando si affida a un gesto, a un movimento, a un particolare per mettere in risalto la drammaturagia musicale, nelle grandi come nelle piccole linee; mai cosi irritante e vacuo come quando, da un’idea preconcetta e sovrapposta al testo (per esempio nel recente Falstaff) crede di voler far derivare ogni conseguenza. E poichè nel teatro di Wagner è la musica a determinare il dramma (non, come opinano i Ronconi, il contrario) e Strehler è in grado di capire la musica come pochi registi d’opera oggi, questo Lohengrin appartiene alle sue più grandi, poetiche realizzazioni: con in più quel pizzico di distacco critico che in un’operazione del genere non guasta mai. Ad un primo atto tutto giocato sulla sapiente collocazione e distribuzione dei personaggi sulla scena (il Re saldamente al centro, l’araldo in primo piano rivolto verso il pubblico, Telramund e Ortrud di lato, Elsa che entra circoscrivendo un giro sinuoso, Lohengrin sullo sfondo: sembra banale, ma ciò è già fonte di altissima definizione psicologica dei ruoli e degli stati d’ animo dei personaggi), fa seguito un secondo atto nel quale i durissimi contrasti sono resi con prodigiosi effetti di luce e di movimenti e con penetrazione psicologica stupenda (anche da uomo di teatro geniale: l’esterno che, durante il corteo nuziale, diventa interno della chiesa, idea peraltro già sfruttata in altro contesto nel Simon Boccanegra). Ma è nel terzo atto, e precisamente alla fine dell’ arduo duetto fra Lohengrin ed Elsa, che Strehler costruisce il suo capolavoro: allorché Telramund, penetrato nella stanza nuziale per uccidere Lohengrin, viene da questi trafitto, egli si accascia sul lettocatafalco, irrorato di luce e ancora intatto, dei due sposi, lasciando su di esso una vasta chiazza di sangue: chiazza di sangue che in luogo di quello virginale di Elsa, ad esso destinato, deturpa il simbolo di una notte d’amore non consumata, tragicamente. Immagine aspra, quasi sconvolgente, ma rivelatrice.

Claudio Abbado era molto atteso a questa prova, che coincideva con il suo debutto wagneriano, e l’ha superata con quella classe, fatta non soltanto di spiccate doti naturali ma anche di rigore e di puntiglio, che gli è propria, anzitutto preparandosi con cura e provando l’opera a lungo, fino nei minimi dettagli. Chi alla vigilia nutriva dei dubbi sulla sua vocazione di direttore wagneriano, é stato smentito dai fatti. In realtà, senza rinunciare e anzi quasi esaltando quelle che sono le qualità caratteristiche della sua personalità d’ interprete (chiarezza analitica, coerenza stilistica, tenuta espressiva, padronanza tecnica di straordinaria bravura, capace di spremere il massimo dall’orchestra), Abbado ha dimostrato un’affinità pressoché completa col linguaggio wagneriano, come se lo stile di esso peculiare e la stessa tradizione interpretativa wagneriana fossero da lui intimamente possedute e da ciò egli fosse partito per dare un’impronta propria alla partitura. Ne è uscita un’interpretazione di fortissimo pregio, appassionata e fervida, tesa e vibrante, senza un solo momento di pausa ed equilibrata in ogni sfumatura, concepita e realizzata con raffinata maestria: un atto d’amore sostenuto da una profonda conoscenza e da un grande rispetto per i valori intrinsechi della musica. Abbado tende a evidenziare in modo particolare proprio la peculiarità e le modernità del mondo sonoro wagneriano, senza però mai perdere di vista gli equilibri e le proporzioni dell’insieme: lucido nel cogliere i risvolti più nascoti della strumentazione, del tessuto ritmico e armonico, accompagna le linee melodiche, di cui l’opera abbonda, con tensioni continue, seguendo le grandi arcate espressive e restituendo gli accenti giusti al flusso continuo della musica. Toccando l’apice nel secondo atto, quello più complesso e aggrovigliato di un Wagner in rapida fase di maturazione individuale, questa interpretazione già lascia intendere quale sia la meta prossima a cui Abbado è chiamato: la Tetrologia dell’Anello.

Alla triade dei debuttanti italiani faceva riscontro una compagnia di canto da tempo avvezza ai cimenti wagneriani, forse nel complesso non omogenea né in speciale stato di grazia, ma in grado di garantire, in questo contesto e nelle condizioni generali odierne (invano rimpiangendosi da taluni i colossi del passato) un elevato livello interpretativo. Anna Tomowa-Sintow (Elsa), Elisabeth Connel (Ortrud), Siegmund Niemsgem (Telramund), Aage Haugland (Re Enrico) sono cantanti sulla cresta dell’onda dovunque e specializzati, anche nel tempio di Bayreuth, nel repertorio wagneriano; anziché disprezzarli tanto, come in questo caso molti hanno fatto, meglio sarebbe cercare di avviare un discorso serio sulle ragioni della odierna, drammatica carenza di interpreti wagneriani. Quanto al protagonista, la Scala si è permessa il lusso di esibirne ben tre in sette recite: Renè Kollo, Siegfried Jerusalm, Peter Hofmann, tre veterani della parte, fra i quali assegneremo la vittoria di tappa proprio all’outsider J erusalem, stilisticamente impeccabile anche se non sempre vocalmente all’altezza.

Con questo notevolissimo Lohengrin la Scala ha aperto anticipatamente le ormai prossime celebrazioni per il centenario della morte di Wagner, che cadrà nell’ 83. Tutto lascia pensare che a quella data, quando questo spettacolo verrà ripreso, esso rimarrà un punto di forza nei contributi per un evento che sta mobilitando i teatri di tutto il mondo. Sul piano nazionale è una vittoria purtroppo platonica, data la povertà di iniziative che caratterizza i nostri enti lirici, dove si preferisce importare spettacoli wagneriani di second’ ordine dall’estero e dove una Tetralogia come quella fiorentina, allestita con grande spreco di energie e di milioni e bruciata nel volgere di poche repliche, è destinata ad ammuffire nei magazzini del teatro. Per insormontabili difficoltà d’ordine tecnico e realizzativo. Così é, se vi pare.

Auditorium, n. 1, febbraio 1982

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