Lo Schumann narrato del sobrio Sawallisch

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Nel concerto romano con i complessi di Santa Cecilia

Secondo l’opinione di Schumann l’ambizione piú grande del critico dovrebbe essere di sentirsi superfluo: se le cose funzionassero in modo chiaro e naturale, comprensibile a tutti, di lui non ci sarebbe piú bisogno, ognuno potrebbe godere da sé la pienezza dello spirito, la bella calma dell’anima a contatto con la creazione o la ricreazione dell’opera d’arte. Per Schumann, che si apprestava a vivere un’epoca di trasformazioni profonde, la critica era una necessità imposta dai tempi, ma si riferiva ancora in primo luogo alla creazione, all’entusiasmo per il nuovo, alla battaglia delle idee: ne era per cosi dire un complemento. Oggi il mestiere del critico vede ulteriormente ridotti i propri obbiettivi: in assenza di una produzione contemporanea capace di stimolare l’esercizio della fede o della distinzione, tutto o quasi si risolve nello speculare sul fatto interpretativo, sulla presunta originalità della riproduzione, alla ricerca di una grandezza del passato che tanto piú si allontana quanto è invasa dalla pretesa di essere rinnovata o attualizzata.

I concerti di Wolfgang Sawallisch sono l’esatto contrario di ciò che oggi si definisce un «evento», sono eccezioni che riconciliano con la musica perché si basano su ragioni di normalità non effimere o sofisticate, ma semplici e vere. Sawallisch ha rinunciato, lui che come nessuno avrebbe potuto accollarsi questo compito, al ruolo istituzionale di guardiano del tempio, di custode ideale dei valori della grande tradizione: e vi ha rinunciato perché ha capito che sarebbe stato inutile scendere a ulteriori compromessi. Arrivederci e grazie, gli hanno detto perfino a Monaco: colpevole di aver creduto nella continuità e di aver combattuto lo sradicamento. Ciò che gli resta è però molto: seguitare a fare musica come ha sempre fatto. Con una punta di solitudine e di amarezza, forse, ma con l’orgoglio di sentirsi e di essere nel giusto.

Esecuzioni come quelle della Renana di Schumann e del contrastante, disuguale oratorio Cristo sul monte degli Ulivi di Beethoven, con i complessi di Santa Cecilia, sono esperienze da cui si esce rigenerati. Sawallisch ci conduce per mano con quella sua inarrivabile capacità di raccontare la musica, di individuarne il percorso, di illustrarne le particolarità, di accenderne il fuoco espressivo, di chiuderne l’arco nell’organica compiutezza delle forme vive. E allora al diavolo le interpretazioni critiche, le analisi e le elucubrazioni sulla difettosa strumentazione di Schumann, sulla esplosiva miscela di convenzione e anelito del dramma di un Beethoven ancora alla ricerca di se stesso, in un genere per lui nuovo ma ribollente di meravigliose memorie del passato, di folgoranti intuizioni del futuro.

Stupendo il coro istruito da Norbert Balatsch, che è della stessa tempra di Sawallisch, compatta e concentrata su ciò che stava avvenendo l’orchestra. Tra i solisti in Beethoven, imponente la voce anche flessibile del tenore Peter Seiffert, piú monocorde il basso Juhann Tilli e ancora acerba la pur sensibile Caterina Trogu-Röhrich.

 

Wolfgang Sawallisch dirige a Roma Orchestra e Coro di Santa Cecilia (ultima replica)

da “”Il Giornale””

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