Dovendosi (o volendosi) festeggiare i cento anni della Cavalleria rusticana a Livorno, che è un luogo di culto di Mascagni nonché la sua città natale, il Comitato Promotore, d’accordo con la Casa Musicale Sonzogno, ha pensato di commissionare a un giovane compositore molto emergente un’opera che non soltanto completasse la serata (compito da decenni riservato ai Pagliacci) ma fosse anche in qualche modo affine al celebrato capolavoro. Ne è nata così La lupa di Marco Tutino, libretto di un esperto facitore di testi per musica del nostro tempo, Giuseppe Di Leva, su un soggetto tratto dalla stessa raccolta, Vita dei Campi di Verga, da cui proviene il dramma a sua volta utilizzato per l’atto unico mascagniano. Né la rete dei riferimenti si ferma qui: giacché proprio La lupa aveva tentato anche Mascagni, e dopo di lui Puccini: i quali però avevano alla fine entrambi rinunciato per opposti e complementari motivi (l’uno trovando troppo nero, brutale e negativo il soggetto, l’altro scarsamente adattabile alla musica l’ambiente in cui si svolge il dramma). Esattamente i medesimi elementi attraevano invece Tutino e Di Leva, spingendoli a tentare un’operazione di recupero del “”verismo”” oggi, sotto forma di una tragedia moderna in stile neorealista, essenziale e nello stesso tempo violenta.
Ma che cosa significa tutto questo? Significa in pratica che Di Leva ha scritto un libretto d’impianto tradizionale, con un taglio vecchio stampo, una lingua modellata sul parlato con qualche licenza letteraria e dialoghi o espressioni talvolta un po’ imbarazzanti, involontariamente comici; e che Tutino, cioè il compositore, ha cercato di assecondarlo traducendo il concetto in termini di immediatezza, di comunicazione, di comprensibilità, o almeno di impatto diretto con il pubblico (ipse dixit che “”troppe volte l’avanguardia ha generato un dialetto chiuso in se stesso e che la musica ha il dovere di arrivare alla gente””). E dunque, per ottenerlo, ha puntato senza scrupoli su immagini melodiche forti, simmetrie riconoscibili e forme chiuse, declamato molto espressivo e di forte gestualità, per situazioni spinte all’estremo nel canto e buttate un po’ là nella vocalità; e ha usato anche le canzoni di Peppino Di Capri, e quelle napoletane, il rock e insomma un po’ tutto l’immaginario e il reale della musica che oggi si consuma.
Solo che Tutino è per l’appunto anche un compositore d’oggi che vuole scrivere opere. E non poteva accontentarsi di rifare Mascagni e l’opera verista cent’ anni dopo, senza sapere che erano passati cent’anni e che la musica era cambiata. E allora ci ha fatto sentire di essere un compositore degli Anni Novanta del Novecento: non d’avanguardia per carità, ma sensibile e colto, consapevole e “”problematico””, più che un neoromantico seguace della cosiddetta moderata modernità. Tendenza che andava di moda quaranta o cinquanta anni fa, ma che per Tutino è evidentemente ancora l’ultima spiaggia di un linguaggio non d’élite. E come ha mostrato questa sua natura? Scegliendo un linguaggio armonico e una strumentazione per così dire di riflessione critica, vischiosa e nient’affatto funzionale al canto, ma semmai avvolgente e contrastante. Non ha capito, o sentito, però, che in ciò vi era contraddizione. Come può un’espressione vocale di smaccata limpidezza e linearità, di breve respiro e chiusa in se stessa, coesistere con un tessuto d’accompagnamento di tutt’altro segno e stile? Non può. Sempliceménte, si viene a generare una frattura.
La domanda più ricorrente, prima e dopo, era: a che serve una muova opera così, a chi è utile? Ohibò.
Da quando in qua si chiede, per di più in anticipo, a un lavoro d’arte di essere anche utile? E’ forse utile La cavalleria rusticana? L’operazione di Tutino e Di Leva era talmente trasparente, dichiarata e onesta da meritare altrettanto rispetto. Solo che, drammaturgicamente e musicalmente, a differenza di Cavalleria, non funzionava, perché si basava su un equivoco paradossale (come coniugare la modernità con la tradizione in un momento storico in cui questi concetti hanno del tutto perduto senso) e non aveva risolto, dopo averla creata, una contraddizione in termini. Oggi non è l’opera un genere per la comunicazione diretta; ma almeno lo sono le nuove opere, dacché il nostro secolo ci ha costretto a specchiarsi in un mondo di frustrazione e di negatività, che proprio dell’impossibilità di un segno positivo ed espressivo, di una comunicazione diretta, e della complessità psicologica della vita e dei sentimenti (dunque del linguaggio e delle forme) ha fatto il suo motivo dominante, anche nel campo dell’arte. Come Tutino, o una parte sensibile di lui, apertamente riconosce, traendone le conseguenze. Ma non, evidentemente, fino in fondo.
Musica Viva, n. 11 – anno XIV