L’argomento che mi è stato affidato – suppongo per competenze e referenze busoniane ormai lontane nel tempo – andrebbe forse letto, in una ricognizione sulla musica italiana nel secondo quarto di questo secolo, con una formula dubitativa. Non vedo influenze dirette di Busoni sul complesso della musica italiana tra le due guerre, non almeno come fenomeno generale e determinante per le sue sorti, ma semmai influenze su alcuni isolati musicisti che hanno fatto della musica italiana una parte importante della cultura musicale europea. Sotto questo aspetto Busoni ha rappresentato un punto di riferimento non in quanto autore italiano – ammesso e non concesso che come tale possa essere considerato nella storia della musica – ma come figura ideale nella quale le pur asserite rivendicazioni di un ruolo preminente nel rinnovamento della musica italiana – che Busoni stesso per un certo tempo vagheggiò – si ampliano a indicazioni su un modo di concepire e di interpretare la musica, senza distinzioni di altro genere.
Busoni mori a Berlino il 27 luglio 1924, ossia quasi esattamente settantacinque anni fa. A suo modo si tratta di un anniversario, che difatti viene celebrato nei luoghi a cui Busoni fu legato biograficamente: in Austria non solo a Gratz e a Vienna ma anche a Salisburgo, con la rappresentazione del Doktor Faust al festival estivo, in Germania sontuosamente a Stoccarda, Amburgo e naturalmente Berlino, la sua principale città di residenza e di attività. E invece significativo che in Italia analoghe manifestazioni non siano previste in istituzioni importanti, fatte salve le fioche voci che si levano dal Centro Studi Busoniani, costituito nella sua città natale di Empoli ormai quasi trent’anni fa. Eppure è fuor di dubbio che dalla figura di Busoni non si possa prescindere nel tracciare le coordinate della storia della musica italiana del nostro secolo, da lui stesso in larga misura anticipate.
Il primo nome che viene in mente è quello di Alfredo Casella. Casella conobbe personalmente Busoni già negli anni ’10, proprio in coincidenza con il progetto che avrebbe dovuto portare Busoni alla guida del Liceo Musicale di Bologna, con ampi propositi di svecchiamento e di rinnovamento. Quel progetto fallì presto di fronte alla incomprensione dell’ambiente musicale e alla inevitabile burocrazia statale, ma lasciò influenze profonde su Casella. In un certo senso fu lui a realizzare almeno in buona parte le aspirazioni di Busoni come didatta e organizzatore musicale, in una adesione completa alle sue convinzioni. Nei primi anni ’20, quando Casella venne nominato insegnante a Santa Cecilia, Busoni manifestò indirettamente in una lettera al violinista Arrigo Serato il suo disappunto per essere stato ancora una volta trascurato da quello che si ostinava a considerare il ‘suo’ paese. Ciò non suonava affatto a critica per la nomina di Casella, cui aveva anzi testimoniato stima ufficiale con la dedica di una composizione di quegli anni, Romanza e scherzoso per pianoforte e orchestra, ma era semmai un’ennesima espressione di quel conflitto irrisolto tra aspirazione e realtà che contraddistingueva l’atteggiamento di Busoni verso l’Italia. L’insegnamento di Busoni passò a Casella per via diretta, su tutti i fronti: nell’insegnamento del pianoforte, non soltanto ispirato a quei criteri di fantasia reinterpretativa che erano uno dei cardini della personalità del Busoni esecutore ma confortato anche dai testi critici da lui stesso predisposti per le edizioni di Bach e di Listz, che cosí entrarono a far parte, almeno elettivamente, della cultura italiana; e nell’insegnamento della composizione, dove per Casella di Busoni contava tanto l’opera creativa – portata ad esempio e innalzata accanto a quella dei protagonisti della musica moderna, ossia accanto a Debussy, Ravel, Schoenberg e a Stravinsky – quanto l’atteggiamento costitutivamente rivolto ad aborrire ogni forma di routine e a proporre, in una serie continua di affrancamenti, la libertà assoluta nell’aspirazione all’incondizionato. E il lato profetico di Busoni a calarsi attraverso la mediazione di Casella nella realtà viva della musica italiana: quel lato profetico che abbraccia tendenze disparate senza privilegiare scuole di pensiero o particolarità aprioristiche, e che prefigura – propugnando da un lato il perfezionamento degli strumenti esistenti o l’invenzione di nuovi, dall’altro l’uso di nuove scale, anche con l’impiego di rmicrotoni – gli sbocchi piú diversi nel campo della ricerca; compresi quelli delle avanguardie del secondo dopoguerra: come, per dirne una, gli apparecchi elettronici capaci di ottenere suoni d’ogni altezza, volume e colore. Questa presenza attiva di Busoni va dunque molto al di là delle influenze specifiche delle sue composizioni e si riflette nelle giovani generazioni allevate da Casella, anche in coloro che, come Goffredo Petrassi, poco o nulla hanno di busoniano nella concezione formale, nello stile e nel linguaggio, ma che partecipano profondamente a una medesima idea di musica costruttiva e non negativa, liberamente estrosa e aperta alla massima comunicazione espressiva. Da ultimo, la funzione di Casella si conferma nel fatto che da lui, o accanto a lui, si propagò nei settori piú diversi la presenza di Busoni come punto di riferimento di un’idea alta e impegnata di cultura in grado di superare le barriere delle singole tendenze: penso a Guido M. Gatti, l’apostolo massimo di Busoni in Italia, che ne diffuse alacremente il verbo ospitandone gli scritti e commissionando studi sulle riviste che dirigeva, dal «Pianoforte» alla «Rassegna Musicale», illustri antenati della odierna «Rivista Musicale Italiana»; fino ad arrivare a Fedele D’Amico, che coronò l’impresa iniziata nel 1941 da Gatti (la prima edizione italiana degli Scritti e pensieri sulla musica) con l’edizione completa di tutti gli scritti sulla musica e sulle arti, e a Roman Vlad, che di Busoni pensatore e compositore penetrò acutamente come pochi lo spirito e le prospettive virtuali. Ma penso anche ad esecutori come Vittorio Gui, che per primo ne rivelò da noi le partiture, e a Fernando Previtali, che quest’opera continuò con dedizione appassionata. Si deve in gran parte all’autorità di Casella se Busoni entrò a far parte della cultura italiana con esatta precisione di tiro: ossia all’altezza non facile di un modello severo ma non astratto, tanto impegnativo quanto estraneo al consumo di massa, anche tra i musicisti.
Il secondo nome che viene spontaneamente alla mente è quello di Luigi Dallapiccola. Nella venerazione che Dallapiccola nutriva per Busoni, sentimento che tuttavia non mancava di argomentazioni critiche ed estetiche precise, poteva esserci, a differenza di Casella, anche una sorta di adesione sostanziata da profonde affinità elettive. Busoni, nato a Empoli da padre italiano e madre austriaca, si era formato come l’istriano Dallapiccola a Trieste e a Graz, mantenendo quell’apertura intellettuale ed artistica tipica delle indoli confinarie’ cresciute fra due popoli e due culture che sarebbe stata una caratteristica fondamentale anche di Dallapiccola. Ma a colpire Dallapiccola non erano soltanto le ragioni native o del cuore, bensí anche la dimensione umanistica di Busoni, la formazione letteraria e artistica, la coesistenza del virtuosismo dell’esecutore con il rigore del compositore, l’ampiezza di vedute, l’originalità del creatore in grado tanto di scrivere i libretti delle proprie opere quanto di concepire strutture autonome e forme strumentali organiche.
Ciò che Dallapiccola apprezzava da ultimo in Busoni erano la vocazione europea, l’illimitata ricerca e il fondamentale ottimismo. Ma quando Dallapiccola, parlando di Busoni, metteva l’accento su alcuni elementi stilistici della sua opera, indirettamente ne individuava anche alcuni aspetti costitutivi che potrebbero valere da contrassegno per lui stesso: di suono personalissimo, la trasparenza assoluta della sua orchestra sono perfetti e lo stesso dicasi della eufonia siderale di certe sue composizioni; la totale assenza di sentimentalismo, la solidità granitica della sua costruzione». In Dallapiccola è possibile riscontrare più che in ogni altro compositore italiano del Novecento la presenza non solo ideale ma anche concretamente formativa di Busoni. Ritorniamo alla formula dubitativa che abbiamo introdotto all’inizio di questa riflessione. L’influenza di Busoni sulla musica italiana tra le due guerre consiste dunque nell’aver indicato ad alcuni compositori particolarmente sensibili – e questa sensibilità era comunque favorita da esperienze personali già in corso – una mèta non provinciale, illuminata, anche nel recupero del tema del carattere nazionale dell’arte. Sotto questo aspetto Busoni può avere agito da bussola di orientamento con alcuni punti cardinali della sua poetica. Il rifiuto dell’estetica del melodramma ottocentesco, come si sviluppa nelle sue considerazioni sulle possibilità dell’opera e sul riconoscimento dell’unità della musica in senso polemicamente antiwagneriano, può essere servito da stimolo a quanti perseguivano nuove forme drammatiche: per esempio a Gian Francesco Malipiero, il cui teatro a pannelli presenta non poche analogie con le idee drammaturgiche di Busoni.
A differenza di Casella, però, Malipiero non fu mai un paladino di Busoni e non subí, pur conoscendolo di persona, il fascino e l’aura del personaggio; eppure, nella sua opera, oltre a convergenze tematiche (il mistero medievale, il teatro delle maschere, i numeri chiusi, l’ottica deformante della realtà) si ritrovano applicate in modo personale e originale alcune delle indicazioni pratiche di Busoni, anche sul piano linguistico.
Sorge il dubbio, salvo dimostrazione contraria, che proprio l’idealizzazione di un Busoni profetico e utopico da parte delle giovani generazioni abbia nuociuto alla diffusione concreta delle sue realizzazioni, mettendone talvolta sullo sfondo le acquisizioni effettive. In secondo luogo, tra le possibili influenze di Busoni, vanno annoverati il carattere polemicamente anti-romantico della sua arte, comune a molte correnti europee del primo dopoguerra, anche con riflessi italiani, e l’aspirazione generale verso un nuovo ordine, fatto di forme solide e belle, governate dalla melodia: ciò che si manifesta nel concetto busoniano di «giovane classicità». Concetto complesso e ancora una volta di alto profilo, ma più teorico che pratico, e comunque estraneo alle tendenze della «nuova oggettività» e del neoclassicismo. Dallapiccola fu colui che meglio intese questo significato e che ne tentò una sintesi: la «giovane classicità» di Busoni significa continuità assoluta con la storia, impegno a portare avanti ogni acquisizione del passato svelandone le virtualità e cosí indirizzando incessantemente verso il nuovo. Si tratta, come è chiaro, di un progetto intellettuale prima ancora che artistico: alla cui base vi erano l’interpretazione della tradizione in senso eminentemente attivo e l’appello a una permanente rivoluzione-conservazione da condurre nel seno stesso di tutti i mezzi espressivi, senza preclusioni di sorta. Questo progetto ideale mal si attagliava al dilagare di antiche forme preromantiche quali partite, toccate, passacaglie, ricercari, concerti grossi eccetera con il quale molta musica italiana, mascherando più o meno l’ambizione a resuscitare un’identità nazionale, tradusse e recepí quel messaggio. Qui Busoni parlava davvero un’altra lingua, ignota ai più. Coloro che seppero intenderla a noi appaiono – l’espressione è ancora una volta di Casella – i ‘migliori’: coloro che seppero dare una dignità e una qualità alle aspirazioni della musica italiana nel contesto della musica europea.
Si può concludere affermando che per costoro Busoni è esistito non in quanto musicista italiano, ma in quanto rappresentante di un regno dello spirito senza patria e senza confini, capace di guidare la rinascita e di allargare il cerchio, offrendo la possibilità, in un recinto angusto, di muovere nuovi passi verso terre sconosciute.
Nuova Rivista Musicale Italiana, n. 3, luglio-settembre 2000