Leoš Janàček – Il caso Makropulos

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Cenni biografici

Figlio di un violinista dilettante, studia a Brno, quindi a Praga, dove si reca nel 1874 per seguire i corsi della scuola d’organo. Qui entra in contatto con i protagonisti della vita culturale del paese e in particolare con Antonin Dvořàk, con cui stringe amicizia. Dopo due anni, difficoltà economiche lo costringono a rientrare a Brno, dove assume la direzione di un coro e diviene insegnante di musica nell’istituto magistrale. Perfeziona la sua preparazione teorica con intensi studi di estetica, di acustica e di psicologia musicale: ha così modo di approfondire la convinzione, intuita giovanissimo, circa la possibilità di un impiego dell’armonia prescindente dalle regole della tonalità. A venticinque anni ha già al suo attivo numerose composizioni: musica sacra, pagine vocali e corali, anche qualche composizione strumentale importante, come la Suite per archi (1877). Tuttavia nel ’79 lascia nuovamente Brno per recarsi a Lipsia quindi a Vienna, allo scopo di completare la sua formazione (studia composizione, direzione d’orchestra, estetica) e la sua cultura musicale. Al suo rientro a Brno, nel 1881, fonda una Scuola d’organo e di composizione, che dirigerà fino al 1919. Nascono altre composizioni, ma soprattutto gli anni che seguono il rientro in patria sono dedicati a ulteriori riflessioni sull’armonia. Poi, a partire dal 1887, l’interesse per il folklore, dal quale vuoi trarre lo spunto per costruire un patrimonio di cultura musicale slava: alla luce di queste ricerche, nonché del nazionalismo antiaustriaco e democratico, si svolge l’attività creativa dello Janàček a cavallo del secolo: dalla prima versione (1887) dell’opera Scírka, ispirata a una leggenda popolare cèca e rimasta ineseguita, all’atto unico Inizio di un romanzo, al balletto Ràkos Ràkoszy (1891), alla cantata Amarus, alle pagine orchestrali e da camera, ai lavori corali e alle liriche vocali, fino al primo dei suoi capolavori teatrali, Jenufa, iniziata nel 1894 e terminata nel gennaio 1904; dove il realismo del soggetto si riflette in un linguaggio musicale che si rifà al patrimonio popolare ma evita ogni allusione folklorica per conseguire una propria inedita evidenza drammatica. Nel 1906 pubblica un saggio sulla musica popolare, che segna la conclusione della sua attività scientifica (nel ’97 ha anche pubblicato un trattato sulla concatenazione degli accordi). Gli anni che seguono, fino alla Grande guerra, vedono Janàček dedicarsi quasi esclusivamente alla composizione di un grande dittico teatrale, I viaggi del signor Brouček, su libretti di Svatopluk Čech, di dichiarata satira sociale.

Terminati nel 1917, I viaggi verranno rappresentati nel 1920, sempre al Teatro Nazionale di Praga: recheranno la dedica a Tomas Masaryk, presidente della neonata Repubblica cecoslovacca. La nazione da poco indipendente riconosce in Janàček uno dei suoi artisti maggiori: del ’19 è la nomina a professore presso il Conservatorio di Praga, in più occasioni gli verranno ufficialmente commissionate composizioni celebrative. Nascono, uno dopo l’altro, i capolavori dell’ultimo periodo creativo, contrassegnati sempre più dall’affinità alle correnti più avanzate del Novecento europeo: alla rapsodia per orchestra Taras Bulba (1918) e alle liriche del Diario di uno scomparso (1919) seguono, per il teatro, Kàtǎ Kabanovà (1919-21, da L’uragano di Ostrovski), la fiaba moderna de La volpe astuta (1921-23), l’apologo graffiante del Caso Makropulos (1923-25). In campo strumentale la Sonata per violino e pianoforte (1921), il primo Quartetto (1923), la Suite per strumenti a fiato Gioventù (1924), il Concertino per pianoforte e sei strumenti (1925), la Sinfonietta (1926). Il 1926 è l’anno di un viaggio a Londra, dove Janàéek è accolto con grandi manifestazioni di stima, e della Messa Glagolitica o Messa Slava uno dei suoi lavori più rappresentativi. E anche l’anno che vede cadere clamorosamente a Praga il Wozzeck di Berg, di cui Janàček si trova convinto difensore; del resto la sua collocazione è ancora fra i settori più avanzati della cultura praghese ai quali lo legava specialmente l’amicizia con Max Brod suo futuro biografo. A più di settant’anni, è ancora capace di innamorarsi: da una tale esperienza gli viene ispirazione per il secondo Quartetto, Lettere intime (1928). Il 12 agosto muore nel sanatorio di Ostrava a causa di una polmonite.

L’ultimo lavoro teatrale, Da una casa di morti (1927-28, su libretto proprio da Dostojevski), verrà rappresentato postumo, nel 1930.

 

 

Karel Čapek

 

«Filosofo, giornalista, drammaturgo, scrittore, uomo»: così potrebbe suonare l’epigrafe di Karel Čapek, nato a Malé Svatoňovice presso Upice nel 1890 e morto a Praga nel 1938.

Laureatosi in filosofia a Praga, dal 1917 al 1920 fu redattore di “”Fogli nazionali”” e dal ’20 al ’38 de “”Il giornale del popolo””, mantenendo sempre partecipe l’attenzione per la vita sociale e civile del suo paese. Insieme con il fratello Josef, noto caricaturista, scrisse le prime raccolte di racconti e di testi per il teatro, affermandosi come autore drammatico, con R.U.R. (Rossum’s Universal Robots, 1920), che procurò a Čapek fama internazionale (la parola cèca robot, coniata da Capek da “”robota””, ossia lavoro pesante, servitù, si diffuse dovunque come sinonimo di automa, uomo meccanico e artificiale). Dopo Il Caso Makropulos (Věc Makropulos, 1922), Capek si dedicò intensamente alla narrativa, ritornando al teatro soltanto negli ultimi anni con opere fortemente satiriche e di denuncia delle brutalità che di lì a poco avrebbero portato all’invasione hitleriana della Cecoslovacchia e alla guerra.

Nonostante l’impegno civile democratico-umanitario e l’esaltazione dell’eroismo nazionale, le opere di Čapek esprimono un tormentato pessimismo circa il modo in cui gli uomini intendono il senso e i valori dell’esistenza. La sua ironia tagliente e il suo acuto spirito satirico sferzano, talvolta in chiave avveniristica, i più vistosi vizi dell’epoca moderna: lo strapotere delle macchine, la feticizzazione delle scienze, la cieca smania di potere. Questo pessimismo di natura filosofica, sovente venato di utopia, si unisce però a un robusto senso pragmatico e alla fede saldissima nell’eterno rifiorire della vita. Anche dove traspare la più disincantata rassegnazione, la voce di Čapek si leva a riaffermare che la vita è più facile e divertente nel momento in cui viene vissuta nelle sue piccole cose: semplice e vera proprio perché priva di senso tragico e di peso.


Pinchas Steinberg / Orchestra e Coro del Teatro Regio

Teatro Regio di Torino, Stagione d’Opera 1993-94

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