Leós Janàček – Diario di uno scomparso, per contralto, tenore, voci femminili e pianoforte

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ll diario d’uno scomparso di Janaček

 

Nel maggio del 1916 il quotidiano di Brno “”Lidové Noviny”” pubblicò in due puntate consecutive sulle pagine della domenica, sotto il titolo Dalla penna di un autodidatta, un ciclo anonimo di ventitre poesie in dialetto valacco, attribuendole a un semplice contadino moravo di nome Jan il quale, sedotto da una giovane zingara, era fuggito con lei abbandonando famiglia e paese: quelle poesiole – precisava la redazione – erano state rinvenute nella sua stanza dopo la sua scomparsa, scarabocchiate su fogli sparsi di diario. Janàček, lettore assiduo del giornale, di cui era anche collaboratore, ritagliò gli articoli e li conservò, come era solito fare spesso. Il suo interesse era stato attratto, più che dalla storia, dal dialetto valacco, che assomigliava a quello lachiano del suo mai dimenticato paese natale, e dalla verace descrizione dell’ambiente campagnolo, che gli ricordava fin nei minimi particolari quello in cui era cresciuto da bambino. Probabilmente la cosa sarebbe finita lì se, nel giugno dell’anno seguente, Janàček non avesse incontrato una ragazza venticinquenne dai fascinosi tratti zingareschi, Kamila Stösslovà, e non se ne fosse innamorato. Kamila non era una zingara, ma una giovane donna sposata e Janàček non era un anonimo poeta-contadino, ma un artista maturo di più di sessant’anni d’età; eppure nei propri senili turbamenti erotici egli percepì un’affinità con la forte storia narrata in quelle poesie, tanto da decidere di metterle in musica: sarebbe stato il suo Diario d’uno scomparso.

Janàček lavorò alla partitura in fasi diverse tra l’agosto 1917 e il giugno 1919, e in quel periodo non smise mai di soffrire per la sua Kamila.

Anche in seguito le avrebbe confidato, come un adolescente innamorato: «Mentre scrivevo quest’opera pensavo solo a te»; e l’immagine della zingara sarebbe tornata come un’ossessione fino alle ultime lettere alla Stösslovà: «Tu sei la zingara nera col bambino», le scriverà ancora nell’ultimo anno della sua vita, anche dopo averle dedicato la bruciante confessione del Quartetto “”Lettere intime””. Trasferire una passione reale in un’opera d’arte, o viceversa vivere un’opera d’arte sentendola come realtà, era una tendenza che faceva parte della natura di Janàček; ma in questo caso ciò rispondeva anche ad altre idee-chiave della sua poetica: la contrapposizione tra le leggi ataviche del mondo rurale – casa, famiglia e chiesa – e l’eruzione improvvisa e incontrollabile di una ribellione inconscia, votata alla autodistruzione; l’attrazione irresistibile per la sessualità femminile, che con la sua violenza quasi animale sconvolge l’ordine della natura e ne è allo stesso tempo vitalistica affermazione; la profonda simpatia per la condizione errabonda degli zingari, emarginati e banditi dalla società, e l’associazione istintiva con i valori autenticamente popolari del loro canto; la scoperta inebriante della bellezza fisica e dell’amore, di cui il desiderio di paternità è la massima aspirazione; su tutto, l’incombere oscuro e fatale di un destino al quale – come ripete il protagonista – non si può sfuggire.

Da quando l’introverso Jan, un ragazzo semplice e laborioso, bigotto e represso, dominato dalla famiglia e dalle convenzioni della società contadina, incontra la zingara Zefka, la sua vita cambia radicalmente; cambia il suo modo di vedere le cose, perfino quelle più quotidiane (la natura, gli animali, il lavoro, la famiglia), portandolo a poco a poco, attraverso scoperte sempre più sconvolgenti, a riconoscere l’inconciliabilità tra i vecchi e i nuovi sentimenti. Jan diviene un’altra persona e, posto di fronte alla scelta, decide di prendere la strada senza ritorno. L’estremo addio al suo mondo e ai suo cari è doloroso, ma di fronte a sé egli ha il futuro: una donna attraente, libera, e un figlio che lo attende fra le sue braccia. Nel ciclo eterno della natura che si rinnova, e che prima si limitava a contemplare con sensi intorpiditi dalla paura del peccato, Jan ha ora trovato la sua individualità: e l’ignoto non gli fa più paura. Da questo punto di vista, il “”diario d’uno scomparso”” è anche il “”diario di una presa di coscienza””.

La partitura consta di ventidue numeri per l’organico tipico del ciclo liederistico, voce (o voci) con accompagnamento di pianoforte; uno soltanto, il XIII, è per pianoforte solo e, posto al culmine dell’arco drammatico, descrive nella forma di un’irruente passacaglia il momento in cui avviene l’amplesso tra i due giovani (Janàček lo pubblicò anche a parte con il titolo Intermezzo erotico). Dei restanti ventuno brani, la maggior parte è affidata alla voce del tenore, che è insieme il narratore e il personaggio principale della vicenda; questi brani sono disposti nella partitura simmetricamente, da I a VIII e da XII a XXII, come prologo ed epilogo all’evento centrale, la seduzione di Jan da parte della zingara Zefka. In questi brani centrali – da IX a XI – al tenore si aggiunge il contralto che impersona la zingara, e il monologo si trasforma in un duello; il coro di tre voci femminili interviene nel numero X, a commentare con straordinaria soavità il punto culminante in cui Zefka conquista Jan non solo con la sua bellezza ma anche con la tristezza del suo canto zigano.

Il fatto che questo coro sia prescritto in partitura “”dietro la scena””, e che qua e là vi figurino anche alcune indicazioni prettamente drammaturgiche (per esempio effetti di luce, pause lunghe o “”attacca”” fra un pezzo e l’altro), sembrerebbe avvalorare l’ipotesi che Il diario d’uno scomparso sia stato concepito come “”un’opera da camera””. Nella partitura il compositore richiede all’inizio la penombra (le luci abbassate in sala); inoltre i pezzi da IX a XI formano una specie di intermezzo operistico, che non narra, ma rappresenta gli avvenimenti.  

In questi tre pezzi Janàček accorpa parti del testo originale cambiando il discorso indiretto in discorso diretto e introduce teatralmente le voci femminili. Un’ulteriore indicazione scenica prevede che il contralto solista, che ha la parte di Zefka, entri in scena alla fine del n. VIII e ne esca alla fine del n. XI. In effetti, dopo la prima, avvenuta a Brno il 18 aprile 1921, Janàcek stesso non avversò l’idea di una rappresentazione scenica del Diario. Un allestimento accompagnato  dal pianoforte si ebbe a Lubiana già vivente l’autore, nel 1926; e numerosi ne seguirono, soprattutto in Germania, dopo che nel 1943 Ota Zitek, con l’aiuto di Vàclav Sedlàèek (il copista ufficiale di Janàcek), 

ebbe approntato una trascrizione per orchestra appositamente destinata alla scena.     

Il luogo naturale per l’esecuzione del Diario d’uno scomparso rimane però l’intimità della sala da concerto. L’essenzialità della musica, la sua aforistica brevità e la capacità di aprire allusioni rapidissime nella leggerezza di una vicenda racchiusa in una sorta di tragica concisione, mal si prestano a essere esplicitate sulla scena senza perdere la coerenza drammatica in rapporto a ciò che Janàček ha voluto esprimere: poetiche visioni, abbozzi di stati d’animo in svolte improvvise, quasi istantanee di una folgorazione, calate nei più profondi recessi dell’anima e dei sensi.     

Un’ultima osservazione riguarda l’esecuzione di questa sera. Essa è in lingua tedesca, nella classica versione di Max Brod, uno dei conoscitori più intimi dell’arte di Janàček e autore di tutte le traduzioni delle sue opere, cui si deve la fondamentale diffusione di Janàček nei paesi di area mitteleuropea. Ciononostante, come in tutte le versioni ritmiche adattate alle esigenze della musica, molto vi si perde non solo del suono originale del dialetto tanto caro a Janàček ma anche della lettera e del significato del testo. Un solo esempio fra tanti: quando nel n. V Jan ha la rivelazione del suo turbamento, e confessa di non poter dormire senza sognare la zingara, l’originale dice: “”o ni sa mi zdàlo””, ossia, icasticamente, “”era lei che vedevo in sogno””. Brod traduce, per evidenti motivi di metrica ritmico-musicale: “”da tdumt’s nichts als Sùnden””, ossia “”allora non ho sognato altro che peccati””. Ciò coglie benissimo i sensi di colpa religioso-sociali di Jan, ma sovrappone a un’espressione semplicemente poetica un nesso di causa ed effetto in quel punto ancora estraneo. Per questo motivo, a fronte del testo di Max Brod, gli ascoltatori troveranno non la traduzione letterale dal tedesco, ma quella dell’originale cèco su cui si basò l’interpretazione musicale di Janček: nella convinzione che ad essa, accanto a quella di Brod, convenga rifarsi per comprenderne completamente il senso.

Norbert Balatsch / Hana Minutillo, Peter Schreirer, Andràs Schiff, Coro dell’Accademia di Santa Cecilia

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