Gli enigmi di un caso inquietante
Il caso Makropulos, ottava e penultima opera di Janàcěk, è la storia di un enigma a più facce che, come ogni vero enigma, nel momento in cui sembra sbrogliarsi e chiarirsi, si complica e si addensa sempre più, fino a estendersi oltre la possibilità stessa di uno scioglimento finale. Una donna dal fascino misterioso e inquietante, che apprendiamo essere una famosa cantante di nome Emilia Marty, giunge inaspettata nello studio legale dell’avvocato Kolenaty, ove si attende l’esito conclusivo di una causa secolare che vede opposti gli ultimi discendenti della famiglia dei Gregor e di quella dei Prus. Venuta apparentemente per chiedere lumi sulla faccenda, costei finisce per rivelare particolari sensazionali su documenti ignoti in grado di risolvere la causa, rifiutandosi però di svelare tanto i motivi che la spingono a farlo quanto i segreti della sua incredibile sapienza. In realtà, scopo della Marty non è proporsi come testimone risolutivo di una causa pressoché insolubile (testimone inconfutabile, giacché le sue rivelazioni si dimostrano prodigiosamente esatte), bensì rientrare in possesso di un foglio allegato al testamento, introvabile, del defunto barone Prus, e grazie a lei ritrovato in un cassetto segreto della casa di Jaroslav Prus, ultimo discendente della famiglia. Per giungere alla mèta Emilia è inevitabilmente costretta a scoprirsi, a parare, ora con l’astuzia ora con la forza magica della sua personalità, i sospetti e le accuse che la sua stessa ambiguità e reticenza le tirano addosso; senza tuttavia da ultimo potersi sottrarre al ricatto del libertino Prus, disposto a barattare le carte ora in suo possesso soltanto in cambio di una notte d’amore con lei: ricatto al quale la donna cede, evidentemente disposta a tutto pur di rientrare in possesso del contenuto di una sempre più misteriosa busta gialla. È nella squallida cornice di una stanza d’albergo, dopo che Emilia ha sottilmente compiuto la sua vendetta concedendosi a Prus con la fredda indifferenza di un cadavere, che i misteri a poco a poco si svelano e il dramma si compie. L’Emilia Marty contemporanea, vivente nella Praga del 1922, è non soltanto la spagnola Eugenia Montez nella quale il lucido demente HaukSěndorf aveva riconosciuto l’amante appassionata di cinquant’anni prima, ma anche, andando a ritroso nel tempo, la russa Ekaterina Mykin, la tedesca Else Miiller e la scozzese Ellian MacGregor, amante del vecchio Prus e antenata di Gregor; ed è, da ultimo, Elina Makropulos, nata nel 1585, figlia di Hieronymus Makropulos, greco di Creta, alchimista alla corte di Rodolfo II (1576-1612) e suo medico personale. Costretta, per un cinico caso del destino, a bere giovinetta l’elisir di lunga vita preparato dal padre per l’imperatore tanto assetato d’eternità quanto scettico, Elina ha vissuto dunque 337 anni, affermandosi come cantante d’opera ma cambiando, a ogni vita, nome e nazione, e mantenendo soltanto, quasi cifra della sua precaria identità, le semplici iniziali: E.M. Ora, sentendosi invecchiare, è ritornata nella città nella quale tre secoli prima aveva avuto inizio la sua avventura, per ritrovare il documento scritto in greco – la ricetta Makropulos, appunto – abbandonato in casa del grande amore della sua vita, il barone Josef Ferdinand Prus: decisa, una volta di più, a prolungare la sua esistenza per mezzo del filtro magico. Tutto sembrerebbe dunque chiarito, il passato come il futuro di Elina, la sua sapienza, frutto di esperienza diretta, come i suoi intenti. Ma un nuovo enigma si affaccia a questo punto: quello del suo futuro. Decidendo finalmente il proprio destino, Elina, esausta e come svuotata dal peso di una solitudine immane, rinuncia alla carta paterna e sceglie di lasciarsi morire; consegnata la formula alla giovane e bella cantante Kristina affinché se ne serva per la sua arte, spira mormorando le prime parole del «Padre nostro» in greco, quasi ritornata bambina e redenta: mentre Kristina, a sua volta rinunciando al dono, brucia il foglio su una candela e con esso il segreto dell’immortalità.
Se raccontare la trama di un’opera che ha tutte le caratteristiche di un giallo-thrilling modernissimo, ricco di colpi di scena, di depistamenti e di riconoscimenti, non rientra nelle regole del gioco, vero è che quel che abbiamo raccontato è soltanto il piano di superficie sul quale scorre l’azione dell’opera di Janàček e della commedia di Karel Capek, da cui l’opera è tratta. Altri piani, infatti, si intersecano con questo sia nel dramma sia, a maggior motivo, nell’elaborazione musicale. Tale enigmatica molteplicità di significati è presente già nel titolo originale –Věc Makropulos – di difficile traduzione in italiano, dove tuttora si oscilla tra L’affare Makropulos e Il caso Makropulos., Věc in cecoslovacco, significa «cosa» (come il tedesco Sache), ma è una parola neutra che può assumere significati diversi a seconda del contesto: oltre a «caso» e quindi «affare», «causa» nel linguaggio giuridico, «fatto» in quello parlato, «documento segreto» in quello figurato: tutti significati in qualche modo pertinenti al soggetto del dramma. (Makropulos è invece un immaginario cognome di tipo greco formato da macro, «lungo» — evidente allusione alla longevità della protagonista – e pulos, «figlio di»).
Janàček, che dopo aver terminato La volpe astuta era alla ricerca di un nuovo testo teatrale, aveva letto il Makropulos — rappresentato al Teatro Vinohràdy di Praga il 21 novembre 1922 — nell’estate 1923 durante una vacanza sui Monti Tatra, e se ne era subito entusiasmato. Ciò che lo aveva avvinto era stata la «terribile sventura» di una condannata «a non morire», che è la trovata fondamentale del «dramma utopistico» di Karel Capek, teatralmente assai ben congegnato e vivo nonostante la sua complessità concettuale; ma evidentemente aveva intuito anche possibilità di sviluppi di tipo musicale, benché non certo nella direzione di un’opera lirica tradizionale. È curioso notare che proprio Capek, pur dando piena autorizzazione per l’utilizzazione del suo testo, avanzasse delle riserve sul progetto del musicista, scrivendogli fra l’altro: «Come già Le ho detto, ho troppa considerazione per la musica – e specialmente per la Sua – per riuscire a immaginarmela combinata con un testo tutto conversazione, così poco poetico e condensato nel dialogo come il mio Caso Makropulos. Temo che Lei abbia in mente qualcosa di meglio di quanto possa offrirLe il mio testo, tolta forse la donna vecchia di trecento anni. Niente Le impedisce di creare una vicenda nuova prescindendo dalla mia commedia, e dove una vita di tre secoli, con tutte le sue sofferenze, possa essere al centro dell’attenzione, ma in una migliore cornice. In fin dei conti non è che io abbia il brevetto di questa invenzione: può basarsi su Ahasvero, l’Ebreo errante, o sulla strega del racconto di Frantisěk Langer (dalla raccolta Assassini e sognatori), o anche sulla signorina Makropulos, adattando l’azione liberamente». Offrendosi di stendere egli stesso una nuova versione del medesimo soggetto più confacente alle esigenze della scena lirica, lo scrittore, concludendo, ribadiva: «Avrei preferito darLe qualcosa di molto meglio di questo lavoro assai particolare, ma se esso l’attrae allora sono certo che ne ricaverà qualcosa di grande». Avuto il consenso di Čapek, Janàček cominciò immediatamente la stesura del libretto, per il quale seguì alla lettera il testo della commedia limitandosi a tagliare alcuni passi e a condensarne altri per fare spazio alla musica, salvo riscrivere, come vedremo, la scena finale; e già nel settembre 1923 poté iniziare la composizione musicale, che terminò nello stesso anno e rivide, come era suo costume, per ben due volte nel corso del 1925, completandone la partitura il 12 novembre. Il caso Makropulos, che andò in scena per la prima volta al Teatro dell’Opera di Brno il 18 dicembre 1926, è dunque un caso assai raro di felice sintesi fra una commedia di forte autonomia drammatica ed espressiva e un’opera teatrale che, senza tradirne né la lettera né lo spirito, diviene creazione individuale e differenziata in virtù dell’apporto della musica: caso che per molti aspetti ricorda l’altro felice incontro che proprio in quegli anni si era realizzato fra Berg e il Büchner di Woyzeck.
Tutti, dunque, sono in qualche modo toccati dall’apparizione spettrale di questa donna «celebre, fantastica, bella da impazzire», ma anche gelida, scostante, corrosiva: dall’archivista Vítek, padre di Kristina, i cui ingenui ideali rivoluzionari sono da lei grottescamente irrisi, al tronfio avvocato Kolenaty, l’uomo di legge pratico e ottuso, sconvolto nel suo piccolo apparato professionale da rivelazioni che contraddicono l’ordine naturale delle cose, fino ai personaggi di contorno dell’inserviente e dell’operaio macchinista che, all’inizio del secondo atto, offrono fulmineamente uno spaccato di vita reale («l’altra faccia, nuda e vuota, del teatro») commentando l’ultimo trionfo pubblico della diva.
Ma è sugli altri antagonisti che la forza schiacciante e distruttiva della protagonista si esercita mettendo a nudo, di ognuno, l’intima realtà umana e psicologica. I due contendenti, anzitutto. Albert Gregor, salvato sull’orlo di un baratro senza via d’uscita, crede di riscattarsi vedendo nella donna il miracolo che ha sempre atteso per dare una svolta alla sua vita: infiammato d’amore per lei, da lei respinto e mortificato, riconoscerà nella sua bis-bis-trisavola l’ultima e più atroce illusione, il nulla dietro il velo squarciato della follia. Jaroslav Prus, defraudato di una vittoria ormai prossima, cinicamente si serve dell’ultima arma in suo possesso per umiliare la donna e degradarne, con il corpo, il mistero: vivrà invece, nel suo macabro amplesso, una notte d’incubo, un’esperienza agghiacciante che si ritorcerà su di lui anche come padre, segnandone a fuoco la vita. In altra maniera, ma dallo stesso fuoco devastante, era stata segnata anche la vita del vecchio conte Hauk-Šendorf, che all’improvviso ritrova nella Marty la sua amante di cinquant’anni prima, Eugenia Montez, una «gitana endiablada» che gli aveva, come un uragano, sconvolto l’esistenza, abbandonandolo in uno stato di lucida demenza. «Con Hauk-Sendorf» — scrive Guido Cherici – «la Marty avrà, nel dramma, sempre un rapporto di tipo diverso, recuperando per lui gli ultimi oscillanti guizzi di quella vitalità e di quella emotività che in lei ormai si stanno estinguendo inesorabilmente. Il rapporto Marty-Hauk, con le sue tinte ‘acide’ e un poco elettriche, determina nel dramma isole di un più accentuato clima espressionista». Janàček se ne servirà per uno degli episodi più impressionanti di tutta l’opera.
Di fianco, ma non per questo meno coinvolti, i due giovani innamorati, Kristina e Janek, figlio di Prus. L’incanto del loro idillio è brutalmente spezzato dal sarcasmo della Marty, che ironizza pesantemente sul loro tenero amore dimostrando, anche nei riguardi del sesso, la più totale indifferenza. Ma prima ancora esso è spezzato dalla semplice presenza della donna-artista fatale, che mina alle basi l’identità stessa dei due personaggi. Se il dramma del fragile, sempre stupefatto Janek è più lineare e quasi inevitabile (preso nei lacci di un amore impossibile, inconfessato, si toglierà la vita dopo aver subito lo scacco dell’apparente trionfo paterno), più sottile è quello della giovane Kristina. Cantante d’opera come la Marty, giovane e appassionata come un tempo lo era stata lei stessa, nella sua figura vede un modello irraggiungibile di perfezione non solo tecnica e ne subisce il fascino al punto da dubitare della propria vocazione e voler per essa rinunciare a ogni altra cosa; ma nello stesso tempo intuisce tutto il peso di miseria e di angoscia, di tristezza e di solitudine, che si cela dietro l’immagine pubblica della grande artista e ne prova, più che ammirazione, pietà. Sarà proprio Kristina a distruggere il manoscritto del caso Makropulos, scegliendo così di rinunciare alle lusinghe di una carriera umana e artistica artificialmente prolungata oltre i limiti naturali della vita, con tutte le sue conseguenze.
Sono questi i limiti che la Marty, per un ignobile atto di sopraffazione subito suo malgrado, ha abbondantemente trasgredito e oltrepassato. L’enigma della sua identità che a poco a poco si svela fin nei minimi particolari è in realtà a sua volta soltanto una faccia del mistero che avvolge la sua figura. La complessità del suo carattere, l’intima contraddittorietà dei suoi atteggiamenti, il groviglio di atti, pensieri e sentimenti che la domina, non nascono soltanto dal fatto di aver vissuto trecentotrentasette anni (e sono stati tre secoli nei quali nessuna esperienza, dalla più sublime alla più bassamente volgare, le è stata estranea, come donna e come artista) ma anche dal significato che queste esperienze hanno avuto per lei. L’attrazione morbosa che ella esercita sugli altri nasce proprio da questa inafferrabilità e ambiguità suprema, che è poi anche la forza straordinaria, gigantesca del personaggio. Sarcastica e seria, violenta e delicata, autoritaria e arrendevole, perversa e ingenua, arrogante e comprensiva, subdola e generosa, interessata e annoiata, vanitosa e indifferente, mutevole persino nell’aspetto fisico, che talora lascia trapelare i segni di un mostruoso disfacimento senile, costei appare un caleidoscopio di figure in perpetua, sfuggente rotazione, cui la musica, con penetrante carica mimetica, offre ulteriori, ambigue definizioni. Risvolti necrofili e palpiti freudiani, deliri erotici e nevrosi mal controllate, accrescono di aspetti modernissimi la psicologia di questo personaggio senza identità e qualità proprio perché possiede molteplici, contrastanti identità e qualità. Il filone al quale il tema si ricollega è fin troppo chiaro ed è di matrice squisitamente novecentesca, al punto da sembrare addirittura paradigmatico. L’approdo finale è un nichilismo senza speranza, una nauseata apatia e una disgustata accidia nei confronti dell’umanità e di tutti i suoi valori, che per lei sono solo il nulla. Commenta Franco Pulcini: «Il sottile dramma di Elina sta nel vedere tutti questi uomini ‘darsi un gran da fare’ intorno a lei, spasimare, litigare, uccidersi per capriccio come Janek, o minacciare continuamente di farlo come Albert Gregor, e, nell’incoscienza di quanto vane ed effimere siano le loro azioni, trovare un senso nella loro vita fuggevole: mentre lei è immobile, imperfettibile, pietrificata nel suo archetipo di desiderabile diva, mentre lei ha conosciuto tutto, di ogni cosa si è saziata ed ora non ce la fa più dalla noia». È proprio in virtù di questa coscienza della vanità di ogni cosa ed esperienza che la Marty sceglie alla fine di non rinnovare il suo contratto con la vita artificialmente prolungata, ma di sparire, andarsene nel nulla accogliendo come una liberazione la morte: convinta che nessuna sensazione nuova potrebbe ripagarla della pena di continuare a vivere.
La grande scena finale nella quale la protagonista, pur fra tratti umoristici, assurge al rango di vera eroina tragica, imposta, senza risolverlo, l’ultimo e più inquietante enigma, quello, in senso proprio metafisico, del significato che una vita prolungata all’infinito per mezzo di un espediente magico avrebbe per l’umanità intera. Si assiste a questo punto alla più importante, decisa divergenza tra la commedia di Capek e l’opera di Janàèek. In Capek infatti ogni personaggio prospetta una soluzione razionale del problema affrontandolo dal proprio punto di vi-sta: Vitek, con il suo ingenuo ottimismo socialista radicato ne-gli ideali della Rivoluzione francese, vede in una vita che durasse tre secoli la realizzazione perfetta di una esistenza pienamente umana, senza più ingiustizie né soprusi; l’avvocato Kolenaty, attenendosi a questioni più pratiche e organizzative, la reputa un’idea assurda dal punto di vista giuridico ed economico; il barone Prus, aristocratico rappresentante dell’alta società e intimamente reazionario, vi scorge un mezzo per fondare la dinastia dei signori della vita, riservata soltanto ai più forti e ai più capaci, ai superuomini e agli uomini di razza. Dopo che Emilia-Elina ha a sua volta esposto il suo pensiero, la tela cala sulla sua risata di scherno a commento delle ultime, ambigue parole: «È la fine dell’immortalità!». Janàèek invece sopprime l’intera scena e affida la soluzione dell’enigma alle sconsolate parole della Marty, simbolicamente riprese in eco da un coro sommesso di voci maschili fuori scena, e all’atto liberatorio di Kristina: scelta che accresce la suggestione e l’efficacia teatrale dell’epilogo e di fatto non propone alcuna soluzione di natura extradrammatica ed extramusicale.
Questa scelta è senza dubbio una conseguenza oggettiva di quella riduzione all’essenza del dramma che Janàček persegue per ragioni, prima che drammaturgiche, musicali, ma si riverbera anche sui contenuti espressivi, poetici e spirituali, dell’opera, tanto che essi assumono una connotazione specificamente janàčekiana, assai più concentrata emotivamente e interiorizzata che in Capek, vero preludio, nella sua tagliente lucidità, a quell’ultima disperata confessione che è Da una casa di morti. Il pessimismo filosofico di Capek, per altro da lui stesso chiarito nella prefazione alla commedia, diviene in Janàček un pessimismo esistenziale, dimostrato per assurdo (una vita più lunga del normale non arricchisce né migliora l’uomo, anzi lo rende più cinico, annoiato e perverso), cui si può opporre sol-tanto la più profonda, dolente pietà. «Sapete», scriveva 1’8 marzo 1828, pochi mesi prima di morire, «questa cosa terribile, il sentimento dell’uomo di non avere mai fine. Pura infelicità. Non vuole nulla, non aspetta nulla».
La sensazione di una estrema dissonanza morale, di un’inquietudine senza fine nel fatale trascorrere del tempo, si ricava fin dal primo ascolto. L’azione, ambientata in un contesto sociale convulso e tumultuoso – tre luoghi pubblici di una metropoli moderna – segue una scansione rapidissima, basata su fulminei scambi di battute, su incisi perentori e icastici, resi con formule musicali altrettanto plastiche e brucianti. Solo il grande racconto finale della Marty si stempera in una più distesa, dilatata scena lirica, cui subentra una calma sinistra, carica di attese. Potremmo anche dire con Franco Pulcini che questa partitura presenta «come uno stridulo spezzone di frenetica vita moderna, nel quale inaspettatamente fanno capolino brividi metafisici e fascinazioni di un passato misterioso. E naturalmente le intersecazioni fra reale e irreale, fra contemporaneità ed epoche mitiche, si fanno sempre più stridenti col procedere della trama, che cresce dando via via più spazio agli aspetti soprannaturali e spettrali, che esplodono nell’ultima scena».
Lo stile musicale dell’opera è un ulteriore, geniale approfondimento, da un lato della tecnica armonica basata sulla libertà degli accordi dissonanti, e dello studio compositivo sul «parlato realistico» dall’altro. Ancora nel 1926 Janàček puntualizzava che «gli studi da me fatti dal punto di vista musicale sul linguaggio parlato mi hanno convinto che tutti i misteri melodici e ritmici della musica trovano la loro spiegazione nella melodia e nel ritmo dei motivi musicali del linguaggio parlato. Secondo me non si può diventare compositori drammatici senza avere fatto studi di questo genere». Nel Caso Makropulos, dove la componente folklorica è quasi del tutto assente, l’influenza del linguaggio parlato sulla musica si esercita non soltanto sulla curvatura ritmica, dinamica e melodica delle parole, ma anche sulla carica espressiva interna della frase, delle battute, del dialogo, a loro volta modellati sul rilievo della singola parola o sulla combinazione degli elementi lessicali. D’altro canto la mancanza di melodie popolari o tradizionali (anche nel senso che questo termine può avere nelle precedenti opere di Janàček), di forme chiuse, di veri e propri interludi orchestrali, non significa affatto rinuncia a strutture musicali di per sé significanti, ché di tali elementi la partitura abbonda. La sua originalità consiste anzi nella fissità iterata di brevi temi musicali, molti dei quali possono essere considerati veri e propri Leitmotive, infinitesimamente variati e sovrapposti oltre che, secondo un procedimento tipico di Janàček, armonicamente trasposti in successioni svincolate dalle leggi tonali. Alcuni di questi temi, come quello della Marty e quello dell’imperatore Rodolfo (quest’ultimo suonato fuori scena da una fanfara di ottoni e timpani, quasi a suggerire una mitica lontananza nel tempo), appaiono già nell’estesa introduzione orchestrale, e si ripresentano con particolare rilievo semantico nei punti culminanti dell’azione, come nei finali del primo e soprattutto del terzo atto. Cifra stilistica costante è l’uso ricorrente di formule strumentali e ritmiche come trilli, tremoli, ostinati e così via; le quali oscillano tra le opposte funzioni di comunicare una fissità tanto ossessiva quanto schizofrenica e uno slancio sfrenato, meccanico, apparentemente senza senso. Simbolica e magica appare la sottolineatura di certe parole, come il nome Makropùlos (in cèco accentato sulla terza sillaba), che rimanda a suggestioni arcaiche, perdute nel passato, quasi dimenticate.
Ma l’aspetto forse più immediatamente impressionante è quello della vocalità. Il fatto che la Marty impersoni una grande cantante accresce naturalmente il peso che la protagonista può avere in un’opera anziché nel teatro di prosa. La vocalità della Marty, benché non le tocchino grandi momenti solistici, appare veramente qualcosa di eccezionale, non soltanto il risultato del perfezionamento possibile a chi abbia calcato la scena per oltre tre secoli familiarizzandosi con le tecniche di epoche diverse, ma anche la testimonianza vivente di tre secoli di storia dell’opera, che nel suo personaggio rivivono come per mirabile sintesi. Nello stesso tempo però questa enorme bravura ci appare solo di riflesso (nelle esclamazioni di Kristina o nel ricordo di una serata trionfale) e la Marty, quando è in scena, sembra renderla soltanto per tragiche lacerazioni, come se ne avesse serbato appena le schegge e un pallido ricordo negli slanci improvvisi, negli sbalzi imperiosi, nel fremito delle sue risate irrefrenabili. E si accresce così, anche simbolicamente, il senso della sua estraneazione, della sua stessa nausea verso un ruolo che per lei non ha più segreti ma nemmeno incentivi. È un altro esempio della straordinaria complessità di motivi che vivono nell’opera di Janàček.
Come pianeti in un universo impazzito, le altre figure cozzano fra di loro ruotando intorno a un sole sempre più spento e freddo. Dei sei personaggi maschili dell’opera, quattro sono tenori, ma ognuno ha caratteristiche vocali e psicologiche diverse, una propria ben circoscritta individualità. È semmai da notare a questo proposito la tendenza sistematica a estremizzare le tessiture o verso l’acuto o verso il grave, senza vie di mezzo: tendenza alla quale si uniforma spesso anche il tessuto strumentale. Questo procedimento non contraddice la derivazione, da Janàček stesso affermata, dello stile vocale dal linguaggio parlato, bensì è la risultante del clima sonoro allucinato e squarciato delle situazioni drammatiche ed emotive, procedenti a sbalzi, a strappi, da cui deriva il colore realistico, prima ancora che espressionista, dell’opera.
Nei contenuti drammatici, ma soprattutto nel rivestimento estremamente incandescente e teso della musica, Il caso Makropulos è un’opera veramente novecentesca. A un linguaggio fortemente individualizzato, nervoso e scattante, corrisponde un messaggio ambiguamente negativo ma non ideologico, come se Janàček intendesse registrare una situazione oggettiva e non erigere una teoria. L’opera come forma di testimonianza e di esperienza, fondata su forme e linguaggi aperti sull’ignoto, è la grande sfida gettata dal Novecento alle possibilità stesse di sopravvivenza del teatro musicale. In questa sfida Janàček superò la dimensione nazionale e fantastica da cui era partito per dare all’opera dimensioni autenticamente sovranazionali e universali, da ultimo semplicemente umane. Per questo l’ascolto del Caso Makropulos, nel modo stesso in cui stravolge i canoni tradizionali del teatro lirico, ci può sottrarre riferimenti estetici che ci sono abituali; ma provoca un coinvolgimento totale, al quale non è possibile rimanere estranei.
Questa nuova versione italiana del Caso Makropulos è stata condotta direttamente sull’originale cèco, tenendo presente anche l’ottima traduzione tedesca di Max Brod, stampata contestualmente al cecoslovacco sullo spartito della Universal Edition. I criteri ai quali essa si è attenuta nascono naturalmente dallo studio dello stile musicale di Janàček, ma considerano in modo particolare la natura tutta speciale della sua vocalità, che ha fondamento, come altrove si puntualizza, nel linguaggio parlato (una sorta di «parlato realistico» interpretato musicalmente) e nella quale la curvatura ritmica, dinamica e melodica è influenzata, per non dire determinata, dall’inflessione della parola. Questo equilibrio sostanziale viene inevitabilmente spezzato nella traduzione, perdendosi l’originaria, strettissima connessione tra parola e musica: tanto più nel passaggio da una lingua eminentemente consonantica come il cèco a una lingua eminentemente vocalica come l’italiano (e potremmo aggiungere: da una lingua ricchissima di parole di una o due sillabe a un’altra che ne possiede in misura inversamente proporzionale, così da costringere sovente a troncamenti ed elisioni qui più che mai inadatti). Tale connessione incide profondamente anche sull’aspetto metrico, tanto che spesso l’accento tonico delle parole non coincide con i tempi forti delle battute, generando quel flusso musicale inarrestabile, incalzante e tumultuoso, nel quale l’intervento della voce si inserisce con funzioni di guida del tutto caratteristiche dell’opera, anche sul piano dei contenuti espressivi.
Il fatto che alla base della elaborazione operistica di Janàček vi sia un testo di notevole qualità letteraria come quello di Čapek accresce naturalmente i problemi. Ogni personaggio, si può dire, ha un suo linguaggio, che è poi il risultato della sua esperienza e della sua individualità; e altrettanto eterogenea risulta la traduzione musicale di tali modi di esprimersi: si pensi soltanto al racconto giudiziario di Kolenaty nel primo atto, reso con un semiparlato tanto flessibile quanto flessuoso, e, all’estremo opposto, a certe impennate improvvise nella vocalità di Emilia Marty, dove la parola o la frase sono scolpite con una evidenza quasi plastica. È in fondo dalla interferenza di queste diverse individualità che nasce lo stile drammatico-musicale del Caso Makropulos, rispecchiando adeguatamente la stratificata complessità di motivi presenti e agenti nell’opera.
In un’opera nella quale significante e significato tendono spesso a confondersi, a mimarsi reciprocamente in modo ambiguo o viceversa a fondersi nella totalità dell’espresione, e nella quale il suono della parola è così determinante per il rivestimento musicale, al traduttore non si dava altra strada che quella di cercar di mantenere l’identità stilistica dell’originale adattandola alla lingua italiana in un percorso il più possibile sciolto, libero, risolto caso per caso, e soprattutto attento a mettere l’interprete in grado di cantare con quella naturalezza, o viceversa con quelle forzature, che Janàček intenzionalmente crea e sottolinea nella musica: con effetti non soltanto vocali ma anche strumentali. Si è cercato perciò anzitutto di mantenere gli equilibri e i rapporti interni al giro della frase, al disegno melodico, al grado di espressività della situazione drammatica – che nel complesso abbracciano uno spettro di sfumature assai vasto e ricco -, e nello stesso tempo di garantire la comprensibilità del testo (assoluta o quasi nell’originale cèco) da un lato senza tradire il tono colloquiale, incisivo, realistico della parlata, e dall’altro senza ridurla alle formule consuete di un libretto d’opera, che inevitabilmente avrebbero finito per suggerire richiami estranei al contesto. Si pensi, per esempio, alla obiettiva difficoltà di differenziare le quattro diverse parti di tenore presenti nell’opera, parti che vanno dal tenore da operetta (Hauk-Sendorf) al caratterista (Vitek), dal lirico leggero (Janek) al lirico spinto (Albert Gregor). La perfetta caratterizzazione del-l’originale viene a scontrarsi di fatto con la tradizione melodrammatica italiana, tanto che certe frasi («Io l’amo!», per esempio) finiscono per suonare in italiano assai diverse che in cèco («Jà vàs miluju»), pur volendo dire la stessa cosa. A ciò si aggiunga che la tessitura acuta della parte, come in questo caso, rischia di suggerire a un cantante italiano una inflessione di stampo enfatico, quando non addirittura verista: mentre invece il realismo di Janàček è stravolto, ossia l’esatto opposto del verismo italiano. Si vuol dire in altri termini che il pericolo di una riduzione agli stilemi tipici della tradizione melodrammatica italiana è sempre in agguato, e uno degli scopi della traduzione è stato proprio quello di indicare all’interprete gli eventuali, inevitabili tranelli, evitando alla radice e drasticamente i possibili equivoci.
Un discorso a parte merita la traduzione del titolo, cui si accenna anche nella nota illustrativa dell’opera. A L’affare Makropulos (che è poi una maldestra traduzione evidentemente ispirata dal termine francese «affaire») ho preferito Il caso Makropulos, non soltanto per ragioni di gusto ma anche perché questo titolo rispecchia meglio, nella sua neutralità, i molteplici contenuti sottintesi nell’originale Věc Makropulos (alla lettera, La cosa Makropulos). Il «caso» è infatti non soltanto quello, enigmatico, dell’identità e quindi della storia di Elina, ma anche la «causa» giudiziaria che mette in moto gli eventi; senza contare che nel corso dell’opera si fa esplicito riferimento al «caso», inteso anche come «casualità», come elemento che agisce quasi drammaturgicamente. Allorché Kolenaty domanda a Elina-Emilia come sia sorto in lei l’interesse per la causa «Gregor contra Prus», quella risponde di averne letto «per caso» la notizia sul giornale; a Gregor che la implora di rivelargli «chi c’è dietro» alle sue attenzioni e alle sue stesse conoscenze di fatti imperscrutabili, Emilia risponde ancora una volta: «un caso». Un caso, appunto, e non un’affare: giacché un «affare» la ricetta Makropulos non lo è per nessuno nell’opera di Janàček, come sta a dimostrare l’epilogo, e tutto si riduce (ovvero si estende all’infinito, senza di fatto sciogliersi) alla dimensione di un «caso» emblematico nella sua stessa eccezionalità.
Nell’eterna questione sulle opere tradotte o in lingua originale, il caso (continuiamo a usare questa parola) del Caso Makropulos è abbastanza atipico. Qui, veramente, se in ogni momento, a ogni parola non si capisce quel che accade e quel che viene detto, all’ascoltatore sfugge gran parte della comprensibilità dell’opera e direi anche dell’effetto immediato di suspense che essa vuoi provocare. Sfuggendo il senso del rapporto tra parola e musica, viene meno anche quello dell’azione individuale che la musica esercita nel contesto e nel modo stesso in cui l’ascoltatore può percepirla. Non basta «sapere» quel che accade, magari leggendo preventivamente il libretto; bisogna «sentirlo» nell’atto della rappresentazione, seguendo il ritmo pressante degli avvenimenti; quasi scoprendolo, o riscoprendolo, di volta in volta. Se questa traduzione fosse riuscita nello scopo di far capire con chiarezza le parole immedesimandosi nella musica di Janàček, essa avrebbe colto per tre quarti nel segno. Pur forte di questa convinzione, della necessità di presentare II caso Makropulos in italiano per un pubblico italiano, non mi sarei accollato un compito così gravoso se non avessi saputo di poter contare, alla resa dei conti (ossia nella realtà viva della preparazione dello spettacolo), sull’aiuto di un musicista esperto come Bruno Bartoletti e sulla collaborazione di Virginio Puecher, oltre che, naturalmente, sulla disponibilità di cantanti pronti a condividere i rischi, i dubbi e anche le scoperte che una impresa di questo genere comporta.
Bruno Bartoletti / Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Ente autonomo del Maggio Musicale Fiorentino, Stagione Lirica Invernale 1982-83