Leonore/Fidelio: la rivelazione

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Enfin abbiamo capito. Può darsi che fosse colpa nostra, ma per la verità nessuno ci aveva ancora aiutato a fare chiarezza sulla questione, men che mai ciò che avevamo letto in precedenza al proposito. C’è voluta l’esperienza diretta dal vivo in teatro – ed è in fondo bello che sia stato così: al Teatro Comunale di Bologna, inaugurazione della stagione, il 13 novembre 2004 – per sciogliere i nodi intrecciati attorno a un totem come il Fidelio di Beethoven. L’unica opera di Beethoven, si è sempre detto, anzi un unicum senza discendenza. Punto di arrivo di un lavoro decennale, scandito in tre tappe: 1805, 1806, 1814. Ma le cose non stanno effettivamente così, almeno per quanto riguarda i due termini estremi. L’Ur-Fidelio portato in scena a Bologna, per la prima volta in Italia e per quanto ci riguarda la prima volta in assoluto (depistanti si rivelarono al confronto gli ascolti in forma di concerto cui avevamo finora assistito), pur presentato con il titolo inesatto di Leonore che appare solo nella versione del 1806, è la dimostrazione che Beethoven ha sì scritto un’opera in piena regola, pur segnata dal suo genio innovativo, ma che quest’opera non è il Fidelio del 1814, bensì, appunto, la prima versione del 1805. Di conseguenza, ciò che siamo soliti apprezzare come il punto di arrivo di un processo migliorativo, è in realtà tutt’altro, la negazione di un progetto, ovvero la rinuncia, che poi si sarebbe dimostrata definitiva, a essere un operista. Il Fidelio non è dunque un’opera, ma la riduzione, il prosciugamento di un’opera intesa come fatto teatrale di cui egli stesso aveva voluto fare esperienza, per poi compiere un passo indietro e riconoscere altrove – in altri territori della forma e del linguaggio strumentale, sinfonico, nel frattempo approfonditi – la propria identità di compositore. Solo considerando il Fidelio non un’opera, ma una “cantata drammatica”, o forse meglio un “dramma cantato” (dove dramma va inteso nel senso beethoveniano di accumulo e scioglimento di tensioni per via d’azione essenzialmente sinfonica), si può comprendere perché Wagner, un fanatico, certo, ma dotato di fenomenali antenne recettive, lo considerasse in nuce un precursore, un antecedente del “dramma musicale”: non Oper bensì Drama.

Teatralmente, l’Ur-Fidelio, o Leonore che lo si voglia chiamare, è non soltanto un’opera in piena regola, ma anche un’opera perfettamente realizzata, almeno nelle misure consentite a un Singspiel. Il passaggio dalla commedia borghese al dramma d’ideali culminante nella celebrazione dell’amor coniugale e quindi nella consacrazione dell’impresa salvifica, distribuito com’è in tre atti, è non solo più equilibrato ma anche assai convincente, corrispondente e simmetrico: non a caso la modulazione (non frattura, come nel Fidelio) avviene alla fine del secondo atto, in modo del tutto naturale e conseguente. Occorrerebbe molto spazio per verificarlo, analizzando i singoli numeri (non solo le differenze: la grande aria di Leonora, il coro dei prigionieri, l’aria di Florestano). Ci limitiamo qui a portare due esempi. Nel primo contesto il Quartetto a canone “Mir ist so wunderbar” non è affatto un improvviso salto di qualità che immette senza preparazione nell’aura superiore dell’ideale (musica assoluta se mai ve ne fu una), ma al contrario l’espressione musicale di un idillio che si realizza sulla scena, nella contemplazione statica di stati d’animo che caratterizzano i personaggi come in un tableaux vivant. Secondo esempio. Nella Leonore, dopo l’annuncio provvidenziale della salvezza nella scena del carcere, ha luogo un Recitativo con orchestra abbastanza esteso prima del Duetto “O namenlose Freude”, apparentemente convenzionale, ma teatralmente efficace e addirittura drammaturgicamente logico (i due coniugi ritrovati si abbracciano a lungo: sono loro il fulcro della vicenda giunta a compimento), fra l’altro di alta qualità musicale (la natura della musica di Beethoven quando agisce nella convenzione meriterebbe da sola un lungo discorso). Tutta questa sezione fu soppressa nel Fidelio, onde passare rapidamente al quadro finale (che il problema fosse avvertito prima di tutto dai direttori, lo dimostra l’interpolazione, in sé assurda ma sottintendente una falla, della Leonora n. 3 proprio come cerniera di questo scabro cambiamento di scena). L’osservazione che ne consegue aprirebbe orizzonti sconfinati: l’Ur-Fidelio non nacque per innalzare un inno sublime alla fratellanza e alla libertà universali, estaticamente trascendente la sfera terrena, ma per raccontare una storia umana in un conflitto a lieto fine. Fu l’ultimo Fidelio a mutare di pelle e di sostanza, rinunciando alla incarnazione nel teatro per divenire un “cartone” di idee elidente la scena in nome dell’assoluto musicale, preparatorio dei vertici della Nona Sinfonia e della Missa solemnis.

Queste e tante altre rivelazioni particolari offrì all’ascoltatore l’edizione bolognese di Leonore, ben narrata, ad onta di qualche inutile provocazione, dalla regia di Francisco Negrin nell’allestimento ripreso dalla De Vlaamse Opera di Anversa, resa con sostanziale adeguatezza da una compagnia di canto omogenea e affidabile, ma soprattutto illuminata dalla magnifica direzione di Daniele Gatti, qui trionfante in una delle prove più difficili e delicate della sua carriera. Tra i tanti meriti di una concertazione puntuale e matura, di uno gli siamo specialmente grati: averci fatto scoprire e capire il “suono teatrale” di questo Beethoven anno 1805, talmente diverso da quello del Fidelio da configurare per sintassi e lessico, anche nei passi consimili, quasi un’altra partitura. Che dire di più? Forse semplicemente che Gatti è oggi uno dei direttori, non solo della sua generazione, che ci interessa davvero ascoltare e seguire.

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