L’«Elektra» magnetica di Abbado

L

A Vienna una magistrale esecuzione del capolavoro di Strauss accolta da inspiegabili dissensi

Contestazioni del pubblico hanno contrassegnato la folgorante interpretazione del direttore, al suo debutto con un’opera del compositore tedesco, assecondata con portentosa duttilità dai Wiener – Applausi inopportuni hanno invece salutato l’incongruente regia di Harry Kupfer, responsabile di un allestimento esemplare per bruttezza visiva


Vienna – Vienna amara. Vienna ingrata. Non è la prima volta che accade, del resto. Con il volto disfatto, lo sguardo attonito, Claudio Abbado sembrava, più che contrariato, incredulo di fronte alla sparata di «buuh» piovuta dal loggione e a lui solo indirizzata. Accanto, con l’aria soddisfatta di chi ha capito come va oggi il mondo, il regista tedesco-orientale Harry Kupfer, se la rideva beato: solo applausi per il macabro scempio da lui perpetrato, l’ennesimo, ma forse il più squallido ai danni del capolavoro di Hofmannsthal e Strauss. E’ finita così, alla ribalta, l’attesissima prima della nuova produzione di «Elektra» all’Opera di Vienna: con un giudizio iniquo. Perché se c’era qualcosa che valesse l’entusiasmo più incondizionato, ciò era proprio la formidabile prova di Abbado al suo debutto con un’opera di Strauss: così personale e folgorante da lasciare impressionati, ammirati e, al termine di un’ora e tre quarti di grande musica eseguita con stupefacente tensione, assolutamente convinti.

In effetti ciò che Abbado ha saputo rivelare di questa partitura ha del prodigioso: il lavoro di scavo analitico, lucidissimo, riesce a dare il giusto peso a ogni idea tematica, pregnanza a ogni relazione fra i personaggi, evidenza a ogni dettaglio della strumentazione. E nello stesso tempo si supera nella sintesi incandescente del dramma, enucleando dalle figure, dalle situazioni, dagli stati d’animo il supremo, profondo rilievo della tragedia classica, rivisitata con occhi moderni. Non solo nei tratti di furore espressionistico, travolgenti, ma anche in quelli di languido abbandono o di distensione lirica Abbado offre un’interpretazione commossa, struggente, di straordinaria sensibilità; flessibile non soltanto nella resa degli episodi strumentali ma anche nell’intreccio di musica e dramma, ogni volta che esso muta di clima.

I Wiener Philharmoniker assecondano questa lettura magistrale con duttilità portentosa, con una gamma di sfumature, di colori e di escursioni dinamiche – dai «pianissimo» impalpabili ai «fortissimo» tellurici – che nessuna altra orchestra al mondo è oggi

in grado di produrre con altettanta naturalezza e incisività.

Nella compagnia di canto soltanto la Crisotemide di Cheryl Studer, in stato di grazia strepitoso, poteva reggere il confronto con la visionarietà e l’intensità drammatica imposte dal direttore. Eva Marton, debuttante nel ruolo, non riesce ancora a dare alla figura di Elektra una consistenza piena, sul piano dello stile più che dei mezzi vocali. La generosità e l’impegno la spingono talvolta a buttarsi nella parte con slanci incontrollati, ad affrontarla per così dire d’impeto più che con la forza del ragionamento e della sottigliezza. Al contrario di Brigitte Fassbaender, che sopperisce con l’esperienza e la classe agli attuali limiti vocali e mette così in risalto, senza troppi approfondimenti interpretativi, l’ambiguità di Clitennestra. Nel settore maschile James King dà letteralmente i brividi nella breve apparizione di Egisto; mentre Franz Grundheber disegna con voce chiara un Oreste di convincente espressività.

Ma fino a che punto nella prestazione della compagnia

di canto, e soprattutto della protagonista, incidesse l’allestimento di Kupfer è difficile dire. Appare tuttavia sconcertante che proprio il lavoro di regia, in grazia del quale si potrebbero spiegare se non tollerare certe stravaganze, latiti del tutto; ove non si limiti ad assurde incongruenze e ad ancor più scomode e innaturali pose (motivo ricorrente il cantare sdraiati o accovacciati per terra).

In mancanza di una regia vera e propria lo spettacolo fa dell’ambientazione scenica uno scopo fine a se stesso: e in questo caso Kupfer e il suo scenografo Hans Schavernoch si prestano al gioco con l’abituale, radicale protervia. In luogo del palazzo di Micene domina la scena un colosso di Rodi privato della testa (questa giace deposta ai piedi del basamento), da cui pendono corde in gran quantità (le fila del destino? E’ ad esse che Elektra, in uno sconveniente tiro alla fune, si attacca per preparare la vendetta e poi danzare fino alla morte). Brutalità, volgarità e violenza sono esibiti (in modo molto credibile, si vede che Kupfer se ne

intende) come gli ingredienti essenziali dell’azione e dunque della messinscena: all’inizio Elektra è Santa Giovanna dei macelli (con ossa, carcasse e sangue sparsi attorno) e assiste allo stupro dell’ancella che ha preso le sue difese. Il ciarpame dei costumi e le luci radenti da riflettori di lager fanno il resto, in uno spettacolo di esemplare bruttezza anche visiva.

Ormai siamo abituati alla malattia contagiosa che devasta i teatri d’opera grandi e piccoli, dovunque. E ci immunizziamo raffinando la schizofrenia con cui abbiamo imparato sempre più a distinguere l’esecuzione musicale dalla rappresentazione scenica. Eppure, di fronte ad una diffusione così rapida, si teme ormai l’annientamento dell’opera stessa. Che a Vienna una parte invasata del pubblico sembrò alla fine addirittura invocare.

 

“”Elektra”” di Strauss all’Opera di Stato di Vienna (repliche il 14, 18 e 22 giugno)

da “”Il Giornale””

Articoli