«Lei vole offendermi»

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Il carteggio intercorso fra Thomas Mann e Arnold Schönberg successivamente alla pubblicazione del Doctor Faustus (ora disponibile in italiano nella accurata traduzione di Fernanda Mancini e Gabrio Taglietti) non aggiunge elementi di particolare novità alla celebre disputa ma costituisce un documento di notevole interesse per chiarire definitivamente sia i termini della questione che la personalità dei due contendenti. Alcune di queste lettere, a partire naturalmente da quelle della fase pubblica della controversia scoppiata nel 1948, erano già note agli studiosi; le altre, finora inedite, comprese quelle degli anni precedenti l’esilio americano dei due artisti, confermano la fondamentale lontananza dei loro caratteri, nonché una buona dose di ostinazione nel difendere ciascuno il proprio punto di vista artistico anche sotto l’influenza di circostanze diverse o invece, nello scenario del caso, di persone per piú motivi interessate ad alimentare il fuoco del conflitto anziché favorire un’intesa.

Non pare dubbio che Mann agisse con una certa leggerezza non informando Schönberg dell’uso che del metodo dodecafonico aveva fatto nel ventiduesimo capitolo del romanzo, per descrivere concretamente l’estremo approdo del lucido delirio compositivo del suo protagonista Adrian Leverkühn. D’altronde, come egli stesso spiegò nella Genesi del Doctor Faustus, «l’idea della dodecafonia nell’orizzonte del libro, questo mondo del patto col diavolo e della magia nera, assume una coloritura, un carattere che di suo non ha – non è vero?-, e che la rendono in un certo senso realmente una mia proprietà, cioè del libro». E Schönberg, senza aver peraltro letto il romanzo (fu Alma Mahler Werfel a metterlo al corrente, non del tutto obbiettivamente), reagì con la durezza che gli era propria, in un primo tempo preoccupandosi non solo di rettificare certe inesattezze tecniche con precisazioni che avevano per bersaglio il consulente musicale di Mann, ossia Adorno, ma anche di evitare di poter essere realmente identificato con il defunto Leverkühn. Tale eventualità gli pareva un’offesa. «Leverkühn è dipinto, dall’inizio alla fine, come un pazzo. Ho settantaquattro anni e non ho ancora disturbi mentali, né ho mai contratto il morbo da cui deriva quel tipo di follia. Considero ciò come un’offesa di cui dovrò probabilmente chiedere conto».

La parte inedita del carteggio rivela però che Schönberg si era adombrato anzitutto del fatto che Mann non lo avesse esplicitamente menzionato come inventore della composizione con dodici note e non gli avesse riconosciuto così il dovuto credito. Non esser neppure ricordato come creatore della dodecafonia: era di questo che soprattutto chiedeva conto. Lo scrittore, dopo aver inviato al compositore una copia del romanzo con la dedica «Ad Arnold Schönberg, l’autentico», non ebbe difficoltà ad accettare di inserire nelle successive edizioni la postilla che conosciamo, denunciando il suo debito, ossia di chi fosse la «proprietà spirituale» della forma compositiva esposta. Ma neppur questo bastò. Schönberg si ritenne offeso dalla formulazione della nota, che lo definiva «un compositore e teorico contemporaneo», e dalla sua collocazione «alla fine del libro su una pagina e in un luogo dove nessuno la vedrà mai». Subito abbozzò una violentissima replica contestando quel «un» che lo sminuiva «al rango di figura di sfondo dell’epoca» («Lei ha voluto offendermi: “”un compositore contemporaneo”” è, fra noi tedeschi, un’espressione che potrebbe usare uno storico parlando di un artista che non è sopravvissuto al suo tempo… […] Goethe avrebbe definito Schubert un compositore contemporaneo?»); e ridicolizzava tanto il personaggio di Leverkühn quanto il suo «gulasch dodecafonico»; «Leverkühn è tino di quei dilettanti che credono che comporre con dodici note non significhi altro che usare sempre la forma-base o le sue inversioni. […] È sorprendente che un personaggio tanto obsoleto possa comparire ai nostri giorni». Queste risentite affermazioni non presero poi la forma di una dichiarazione pubblica; quanto al primo punto, nella lettera inviata il 13 novembre 1948 alla «Saturday Review of Literature» Schönberg aveva già chiarito il suo pensiero al riguardo: «Naturalmente fra venti o trent’anni si saprà chi dei due (lui e Mann) era contemporaneo dell’altro».

Se Schönberg lanciava la sfida dall’alto del suo orgoglio ferito e della sua intransigenza ebraica, Mann, piú distaccato, ironico e un po’ tartufesco, si mostrava conciliante fin dalla replica: «È un triste spettacolo vedere un uomo di grande valore, la cui fin troppo comprensibile ipersensibilità nasce da una vita sospesa fra la glorificazione e l’oblio, cedere in modo quasi premeditato all’allucinazione di essere perseguitato e derubato, e lasciarsi andare a una polemica rancorosa. È mia sincera speranza e desiderio che egli possa elevarsi al di sopra dell’amarezza e del sospetto e possa trovar pace nella certezza del suo valore e della sua gloria!».

Mann non dubitava del proprio valore, mentre della gloria aveva un concetto piú flessibile. Fu anche con questa consapevolezza che Mann lasciò cadere la polemica, e Schönberg da ultimo accettò di «sotterrare l’ascia di guerra.», ma non volle che la rappacificazione fosse resa pubblica. Era il 20 aprile 1951. Schönberg morì pochi mesi dopo, Mann gli sopravvisse quattro anni. I due grandi contemporanei si affidavano ora al giudizio dei posteri.

da “”Il Giornale””

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