Sembra che il 1991 sia stato un anno di crisi per l’editoria in generale. Per quella musicale, si è trattato di una conferma. La situazione, che già non era rosea, si è attestata sul brutto stabile. E non si intravvedono schiarite. L’onda della diffusione della cultura musicale, che si supponeva lunga dopo lo slancio degli anni Settanta. si è arrestata, e attraversa un momento di riflusso, se non di stagnazione. La ricorrenza del bicentenario della morte di Mozart, appena trascorsa, ha offerto la dimostrazione che manca un piano organico di organizzazione e di gestione perfino di eventi sulla carta propizi: molti libri sono stati prodotti sull’argomento, ma senza che emergesse una chiara distinzione di priorità. Ad es., privilegiando la documentazione sui tentativi, spesso isolati e precari, di interpretazione.
Colpa degli editori o colpa del pubblico di potenziali lettori di cose musicali? Le ragioni sono complesse e richiedono alcune premesse. La prima, e più importante, riguarda la perdurante assenza dell’insegnamento scolastico della musica tanto dalla fascia elementare (dove dovrebbe avvenire l’apprendimento del linguaggio di base) quanto da quella medio-superiore (dove la musica dovrebbe connettersi con lo studio approfondito della letteratura, della filosofia, delle altre arti e via dicendo). Lo spazio a fatica conquistato nel corso medio-inferiore è del tutto insufficiente e perfino controproducente: in molti casi, anziché avvicinare alla musica, è uno stimolo potente ad allontanarsene. Conseguenza non ultima di questo stato di cose è la divaricazione tra l’esperienza personale di ascolto e l’abitudine alla riflessione sulla musica. E dunque anche alla consuetudine della lettura.
E’ indubbio che gli spazi della diffusione della musica si siano molto ampliati in questi ultimi anni. Ciò non ha però significato una crescita della cultura musicale. Anzi. Fenomeni di bassissimo profilo come le esibizioni tenorili nelle arene costituiscono gli unici poli di aggregazione capaci di competere con i grandi concerti rock e pop. Ma non è questo il pubblico che si possa sentire stimolato ad approfondire la conoscenza e la comprensione della musica. E a ciò va aggiunto un fatto non meno importante: da noi è totalmente assente la pratica della musica d’insieme, eseguita e non ricevuta passivamente, coltivata nell’uso domestico. All’estero, la maggior parte delle pubblicazioni di musica è rivolta a soddisfare le esigenze di questo pubblico, che non solo va ai concerti e compra dischi, ma si cimenta anche con l’esecuzione della musica. Per costoro è del tutto naturale avere in casa, accanto alla edizione delle opere di Goethe o di Shakespeare, le riduzioni di Mozart, Beethoven o Brahms per gli organici più vari, e spesso anche le partiture originali. L’idea di sfogliare una partitura o uno spartito nella solitudine della propria intimità è altrettanto naturale come aprire un libro di poesie o leggere un romanzo.
A chi si rivolgono, da noi, le pubblicazioni di musica? Essenzialniente a una cerchia ristretta di specialisti. Agli esecutori, in primo luogo, che ne fanno uno strumento di lavoro, e a quei pochi altri – studiosi, professionisti o appassionati – che per qualche misterioso motivo sono in grado di leggerne i contenuti. Si capisce che questa base è troppo ristretta per consentire alle case editrici di prosperare. Le grandi case editrici, come ad es. la Ricordi, vivono principalmente dei proventi derivanti dal noleggio dei materiali per le esecuzioni e solo in misura ristretta della vendita al pubblico. I serbatoi rappresentati dai Conservatori e dalle scuole di musica non bastano a consentire iniziative editoriali di portata più ampia, che debbono essere necessariamente finalizzate a scopi ben precisi, essenzialmente didattici. Un esempio: neppure del repertorio operistico più popolare sono a tutt’oggi disponibili le edizioni critiche complete delle partiture. E quando esistono le singole opere, il loro costo è così elevato da scoraggiarne l’acquisto da parte di chi, magari per proprio piacere, vorrebbe possedere nella sua biblioteca. accanto ai Promessi sposi, le partiture del Nabucco o della Lucia di Lammermoor. Solo Rossini, grazie all’attività benemerita della Fondazione istituita a Pesaro, può contare oggi su una presenza editoriale massiccia e ben articolata, per quanto anch’essa
Se si legge poco in Italia, ancor meno si legge di musica. Un editore che pensasse di vivere producendo solo libri di musica, sarebbe destinato a un’eroica lotta per la sopravvivenza quotidiana. L’esempio dell’Edt, nata proprio con questo scopo, sta a dimostrarlo. A un’iniziale fervore di pubblicazioni, che poteva sfruttare il fatto di ampie lacune nella nostra cultura musicale, è inevitabilmente subentrata una riduzione dell’attività, per quanto il livello qualitativo fosse e rimanesse mediamente alto. La risposta è stata insoddisfacente proprio nella misura in cui la Edt tentava la creazione di un catalogo che abbracciasse, con titoli fondamentali su autori fondamentali, la storia della musica in un quadro organico di figure, documenti, problemi e riflessioni critiche: una sorta di biblioteca di base per i frequentatori di musica. L’idea che ciò fosse possibile si è però scontrata con la realtà che non esiste ancora, in Italia, un bacino di utenza identificato e abbastanza ampio per sostenere queste iniziative. La mancanza di una formazione dal basso, radicata nelle istituzioni scolastiche, si riflette nella presa instabile di un’emancipazione culturale proveniente per così dire dall’alto, desiderosa di calarsi nella realtà. Ma è proprio questa realtà a risultare sfuggente: il pubblico dei lettori di musica è un’entità indefinibile, e ancor meno programmabile.
Entrare in questo terreno accidentato equivale a scontrarsi con vistose contraddizioni. Ad es., con i il proliferare di riviste di argomento musicale, che sembrano coprire oggi la parte più cospicua dei lettori interessati alla musica, e con la sempre maggiore importanza che viene data, dalle istituzioni, alla compilazione dei programmi di sala, oggi divenuti un vero e proprio surrogato delle monografie. Può darsi che questa tendenza abbia eroso gli spazi già ristretti dell’editoria musicale, e che il pubblico cerchi nelle riviste, molte delle quali mirano ormai a oltrepassare gli ambiti dell’attualità per offrire contributi storici e critici di più ampia portata, o nei programmi di sala, più strettamente legati all’avvenimento e all’ascolto diretto, quelle occasioni di riflessione e di approfondimento che a rigor di logica dovrebbero essere appannaggio dei libri. Forse in questa tendenza torna a giocare un ruolo determinante il desiderio di non disperi dere l’attenzione del momento, connessa alla scarsa abitudine alla lettura e alla mancanza di un inserimento organico della musica nella formazione generale, culturale e umana, dell’individuo. Ma come spiegare allora il successo di iniziative editoriali quali la grande Storia della musica della Edt, o il Dizionario della musica e dei musicisti della Utet, la cui diffusione va ben oltre i limiti che abbiamo fin qui tracciati? Non significa forse un’esigenza di ampliare le prospettive della conoscenza musicale, in senso globale e interdisciplinare? Vorremmo poter rispondere affermativamente a questa domanda. Temiamo però che anche questi monumenti che certamente fanno onore alla nostra cultura siano, per molti, strumenti utopici di un’aspirazione al sapere, cercata più nel possesso esibito che nella reale, diuturna consultazione dei testi. L’equilibrio che necessariamente deve esistere tra domanda e offerta è ancora lontano dall’essere raggiunto. Gli editori hanno le loro responsabilità quando tentano il colpo fiutando le mode, o cercano di imporre prodotti scadenti, magari affidandosi ad autori stranieri lontani dal nostro gusto, e risparmiando sulle traduzioni. Ma anche i buoni libri, senza un mercato capace di assorbirli e valorizzarli, lasciano il tempo che trovano. Forse bisognerebbe rassegnarsi all’ipotesi che la musica classica, nonostante il nostro sia riconosciuto come il paese della musica, interessi a un gruppo limitato di persone, sempre le stesse. E che non tutte fra queste ritengano indispensabile cementare la loro esperienza con la frequentazione dei testi di musica o sulla musica. Se così fosse, la produzione di libri sarebbe destinata a una contrazione che in qualche misura è già avvenuta, nella tensione verso la qualità se non nella quantità. La situazione che stiamo vivendo richiede uno sforzo non solo intellettuale ma anche morale: apparentemente in contrasto coi tempi.
Lettera dall’Italia, a. VII, n. 25, gennaio-marzo 1992