L’ha diretta a Firenze insieme al balletto «La giara» di Casella
Firenze – Ai tanti meriti che Gianandrea Gavazzeni si è conquistato in più di cinquant’anni di carriera, mai avremmo creduto di dover aggiungere quello di saper rendere, se non amabile, così signorile Cavalleria rusticana di Mascagni. In un ambiente acusticamente infelice, con una compagnia di canto convincente solo nella Casolla e in Johannsson (un po’ sopra o sotto le righe gli altri: Carroli, Litting, Barbieri) Gavazzeni ha compiuto un piccolo giuoco di prestigio: nobilitando con la sua sapienza di artista e la sua serenità di uomo al di sopra delle parti – l’unico finora che abbia avuto il coraggio di denunciare apertamente la pesante situazione fiorentina – una serata popolar-culturale non nata certo sotto i migliori auspici. Davvero ci si domanda che cosa sarebbe stata questa stagione lirica invernale senza la sua presenza. I caldi, insistiti applausi del pubblico e la concentrazione con cui l’orchestra e il coro, apprezzabili come sempre, hanno assecondato il grande maestro, davano la giusta risposta.
Anche se continua a riempire i teatri, Cavalleria rusticana rimane un’opera orrida. Naturalmente, è proprio per questo misto di selvaggio e di convenzionale che piace, e non c’è nulla di strano. Ma, riascoltandola, veniva da pensare che i suoi valori più autentici non fossero tanto nel canto sfogato e urlato delle passioni, degenerazione estrema nella estetica del melodramma popolare, quanto nel confuso ma inopinatamente folgorante intuito del teatro e nella ricchezza eterogenea degli spunti. In fondo, Cavalleria è anche una colossale operetta abortita; con melodie («Viva il vino spumeggiante») degne del miglior Lehar. Che con il verismo soltanto abbia poco da spartire, l’hanno capito ormai quasi tutti: salvo quei cantanti che si intestardiscono a caricare le tinte (vedi Carroli) e quei registi che si barcamenano tra processioni, carabinieri e chierichetti, e si ispirano, senza la dovuta ironia, alle filodrammatiche d’un tempo o alle telenovele di oggi. Un po’ come questa volta faceva Lamberto Puggelli, in contrasto con le scene niente affatto malvagie e anzi furbescamente ammiccanti di Raffaele Del Savio.
L’intelligente idea di abbinare alla musicalità istintiva di Mascagni (1890) quella altamente disciplinata di Alfredo Casella nel balletto La giara (1924) – per la cultura: Pirandello contro Verga – è naufragata nella versione truffaldina realizzata per Maggiodanza da Enzo Cosimi. Il quale palesemente ha preso fischi per fiaschi e lucciole per lanterne, imponendone poi gli effetti a tutti quanti. La giara di Casella non è infatti un balletto, ma una commedia coreografica rappresentativa di caratteri etnici e musicali storicamente e stilisticamente inequivocabili. L’azione segue una sceneggiatura precisa, fissata minuziosamente da Casella con Pirandello stesso; e questa, alternandosi agli episodi di danza, si svolge nella forma di un recitativo pantomimico o commedia mimata, indicata in partitura e descritta fin nei minimi dettagli. Prescindere dalla storia e dall’ambientazione – i colori sgargianti e la luce splendente della Sicilia – significa annullarne completamente il senso. Come è di moda, il coreografo pensante di turno ha invece ideato un balletto naturalmente astratto e simbolico, doverosamente scuro e oscuro: talvolta piacevole a vedersi ma del tutto estraneo alla musica e allo spirito della raffinata reinvenzione di Casella.
Peccato, perché La giara è un documento importante delle avanguardie cosmopolite degli anni Venti e nel suo genere un gioiello: che come tale il pubblico avrebbe il diritto di conoscere e di apprezzare. Splendida, anche qui, la direzione di Gavazzeni, e molto buona la prestazione dell’orchestra. Applausi meno convinti che per Cavalleria. Ma non per colpa della musica.
«Cavalleria rusticana» di Mascagni e «La giara» di Casella al Teatro Verdi di Firenze (repliche oggi 1’8, 10, 12,14,17 e 19 marzo)
da “”Il Giornale””