«Capriccio», l’ultimo lavoro teatrale di Richard Strauss, viene considerato, non a torto, testamento autobiografico e congedo dal mondo dell’opera. Ma senza enfasi, nel segno anzi della leggerezza e dell’ironia, in una suprema, definitiva sintesi di gioco del teatro e con il teatro. In quest’atto unico intitolato con un certo understatement «pezzo di conversazione per musica» e ambientato a Parigi «al tempo della riforma di Gluck», rivivono i fantasmi della finzione scenica, le contese tra convenzioni, le amabili divagazioni sui capricci dei cantanti, intrecciati però con un fondo di verità fuori dal tempo, dal quale emerge un chiaro segnale indicatore: se il teatro è la vita (e per nessun altro compositore, dopo Mozart, ciò fu vero come per Strauss), la vita può essere rappresentata dal teatro solo come vagheggiamento ideale.
A rivelarlo è la vicenda sentimentale che si dipana parallelamente alla conversazione sul teatro, sui suoi costumi, sul tema, da sempre oggetto di polemiche tra compositori e librettisti, della supremazia della poesia o della musica: tema, quest’ultimo, a bella posta calato nella cornice settecentesca che storicamente più lo dibatté, ma evidentemente elevato a simbolo di un’aspirazione insieme intellettuale e artistica, eternata dal modello di Wagner. Un compositore, Flamand, e un poeta, Olivier, si contendono l’amore della contessa Madeleine, ognuno convinto che la propria arte possa da sola ottenerne il cuore. Ma quando il sonetto a lei dedicato da Olivier viene rivestito di musica da Flamand, ecco che l’opera perfetta, indissolubilmente formata dall’unione delle due arti, diviene emblema di una perdita: indecisa tra i due rivali, dai quali è ugualmente attratta, Madeleine rinuncia a scegliere e proietta il proprio amore nel sogno di quell’opera d’arte perfetta, da lei stessa ispirata. Il paradosso, dopo essere stato impostato, si chiude senza risposta nel monologo finale di lei, l’ultimo grandioso addio di Strauss affidato a un personaggio femminile: il trionfo celestiale dell’arte (anzi, delle arti sorelle) si trasforma in struggimento e poi in estasi, ma non ammette la possibilità di essere vissuto concretamente. Mentre la contessa esce solitaria di scena, noi sappiamo che una scelta tra i due pretendenti non potrà avvenire, né domani né mai.
Il rischio di intellettualismo, se non di estetismo, viene evitato da una prodigiosa contraffazione di stili musicali, ora «alla maniera di» ora completamente reinventati, e da un meccanismo di contrappesi teatrali che rende il doppio intreccio non solo vivace ma anche equilibrato. L’incastro si produce allorché il conte fratello di Madeleine (unico personaggio a non credere alla magia trasfigurante della musica, del palcoscenico interessandogli semmai le grazie sensuali della giovane attrice Clairon) propone, ridicolizzando l’ipotesi del direttore del teatro La Roche di un ennesimo soggetto mitologico, che alla base della nuova opera da fare siano posti gli eventi di quella giornata, vissuti da tutti i presenti: sarà Madeleine a deciderne il finale. Il rapporto si rovescia, la vita stessa diviene soggetto di una rappresentazione teatrale, ma senza una conclusione possibile. Così facendo, Strauss abbandona ogni finzione settecentesca e conferisce alla stia opera una prospettiva enigmatica, novecentesca.
La sua autobiografica celebrazione del teatrante, che cade esattamente alla metà dell’atto, non è uno squarcio caricaturale all’interno di un’opera seria, ma una orgogliosa dichiarazione di fede di un uomo di teatro giunto alle soglie della fine e che già vede, con impagabile ironia, la propria tomba e ne detta l’epigrafe. Cioè di Strauss stesso e delle sue molteplici facce in quella riassunte.
da “”Il Mattino””