La rilettura delle recensioni dedicate da Fedele D’Amico a spettacoli d’opera in cinquant’anni e passa di militanza critica è un esercizio che si raccomanda a quanti continuino a considerare l’opera il piú bello spettacolo del mondo. Costoro vi vedranno rispecchiate le ragioni della loro adesione, rallegrandosi di ritrovare un interprete capace non solo di intuirle ma anche di comunicarle con il pensiero e con le parole; e anche quando per avventura il giudizio non dovesse lasciarli soddisfatti, apprezzeranno il fuoco dell’argomentazione, la lucidità dell’esposizione, l’originalità dello stile. Doti che D’Amico, proprio nelle dimensioni ristrette di una recensione, sapeva mettere a frutto con acceso entusiasmo e rigore analitico. Capiva di teatro come pochi: cogliendo al cuore, forte di una preparazione quasi maniacale ogni volta mirata all’oggetto specifico dell’ascolto, il nesso tra il testo e la sua realizzazione. E se questa non collimava con l’idea che di quello egli s’era fatto con lo studio, non mancava di spiegare il perché dell’uno e dell’altra, traendone le logiche conclusioni; che potevano a loro volta spaziare dal piú ovvio buon senso alle piú raffinate e sottili distinzioni. Come tutto ciò potesse avverarsi nello spazio limitato di un articolo, era il suo segreto e la
sua pena: una sfida da vincere in bellezza senza darne mai a priori per scontato l’esito.
Opportunamente Gioacchino Lanza Tomasi, nell’affettuosa introduzione a questi scritti teatrali, sottolinea che D’Amico «era un uomo di prassi, e di una prassi che gli era impossibile trasferire in sistema, non per incapacità a estrarre l’universale dal particolare, ma per un amore smisurato dell’esperienza, tale da esaurire nel momento empirico la ragione d’essere dell’opera d’arte». A chi gli chiedesse perché amava tanto il teatro, lui che avrebbe potuto contribuire alla crescita della coscienza critica dei suoi lettori parlando piú spesso di Bach e di Beethoven che non di Verdi e di Puccini, D’Amico era solito rispondere che si sentiva intimamente legato alle radici sociali, della cultura teatrale, partecipe di una tradizione collettiva e popolare nella quale era cresciuto, e di cui doveva rendere conto con chiarezza: il teatro rimanendo un luogo d’incontro privilegiato fra individui animati dalla stessa oscura passione. Ed è proprio qui il segreto e sue recensioni, una specie di simbiosi tra elementi vitaíi che nella eterogeneità dei soggetti si confrontano con la rappresentatività di situazioni ed eventi concreti.
Scorrendo gli articoli nell’ordine cronologico in cui sono disposti dai curatori, che li danno attinti alle fonti dei periodici e delle riviste a cui D’Amico collaborò (giacché nei quotidiani non volle mai entrare, ritenendosi incapace di scrivere «a caldo»), par di riconoscere, più che una dichiarazione di poetica, una ostinata fedeltà a principi d’etica e di estetica, in costante dialettica con l’opera ascoltata. Dell’opera e delle sue diverse interpretazioni, sotto il profilo sia musicale chè scenico, a seconda della circostanze, D’Amico sapeva ridare non solo l’immagine e il profumo ma anche la sostanza. Coesistevano in lui l’ammirazione per Toscanini, Visconti e la Callas nel melodramma ottocentesco e l’interesse per i classici del Novecento, fino ai contemporanei; dove c’era spazio per Berg e Dallapiccola, ma anche per Menotti e Rota. Delle tendenze degenerative del teatro di esperimento moderno fece in tempo a vedere i primi sintomi, non l’epidemia; ma non ebbe dubbi nel riscontrare nei processi di lettura sovrapposta e attualizzante la «screanzata invadenza dello spettacolo analfabeta». In tali casi reagiva tumultuosamente, con una violenza pittoresca, quasi popolaresca; ma già pensava al momento in cui freddamente avrebbe affilato le armi della dialettica per scendere in carnpacontro i profanatori. Era anche questo il suo modo teatrale di vivere la passione dell’opera.
In una delle sue ultime polemiche, a favore dalle traduzioni e contro l’introduzione dei «sopratitoli» negli spettacoli d’opera, parve a molti combattere una battaglia ideale fine a se stessa. A rileggere oggi quell’articolo dell’ «Espresso» «Come si dice Wagner in italiano?» si resta abbagliati dalla forza paradossale delle argomentazioni e dai riverberi taglienti della scrittura, e si sarebbe tentati di dargli ragione. Eppure in quel caso D’Amico aveva formalmente torto. La sua battaglia non era ideale, bensí fin troppo realistica: solo che la realtà a cui si riferiva non era pili quella di una civiltà, la sua, in cui il teatro avesse ancora un senso immediatamente comunicativo. Paradosso per paradosso, D’Amico rilevava qui acutamente la fine di un’epoca, e si opponeva alla sua agonia rilanciando il suo positivo, fiducioso vitalismo.
Di questo vitalismo, continua metamorfosi di razionalità e irrazionalità, aveva sempre identificato in Rossini la matrice ideale fattasi incarnazione teatrale. E ne aveva scritto a più riprese, fin dal 1939 in un saggio poi ripudiato ma ricco di spunti, dedicando all’argomento due corsi universitari, nei primi anni Settanta e Ottanta. Quelle dispense, che sanzionavano ì principi fondamentali della rinascita rossiniana, sono alla base del volume postumo Il teatro di Rossini, raro esempio di trattazione organicamente divulgativa su un grande tema di storia della musica. La destinazione didattica è evidente, ma non sminuisce il valore della testimonianza, che reca per intero l’impronta di uno studioso interessato piú a spiegare i fatti che a ricamare giudizi. E quando essi giungono, ecco la fulminante rivelazione di un genio teso a un’espressione di pura bellezza, che brucia in una «vertigine vitalistica, al fuoco di un’irruente felicità musicale». Quasi un ritratto del critico riflesso nell’autore prediletto e nella sua opera, nel suo e nel nostro tempo.
da “”Il Giornale””