La brama, la tremenda brama parsifaliana. Questo avrebbe comunque ucciso un giorno Giuseppe Sinopoli. Con lui ho condiviso fraternamente l’esperienza più amara della mia vita, e forse anche della sua, poco avvezza alle sconfitte: il fallimento all’Opera di Roma. Die Wunde, la ferita, la chiamavamo scherzosamente tra noi. Anche se si credeva Parsifal, portava insanabile in sé la piaga di Amfortas: una visione radicale dell’esistenza, senza compromessi, senza condizioni, senza pietà per gli altri, ancor meno per se stesso. Era un impuro folle, ma tutt’altro che inconsapevole di sé, per intelligenza e cultura. Personaggio difficile, ispido, contraddittorio, curioso e a volte pauroso miscuglio di acribia razionale e di violenza istintiva, di energia positiva e di distruttiva negatività, Sinopoli si distingueva non soltanto per la sua statura intellettuale ma anche per la sua capacità di vedere in ogni cosa un simbolo, in ogni compito, anche il più insignificante, una meta superiore. Questa intransigenza, questa determinazione, questo affrontare sempre le cose come se si trattasse di una questione di vita o di morte, costituivano il suo fascino e la sua scomodità, la sua forza e la sua debolezza. Per scelta o per destino, Sinopoli ha vissuto tutta la vita agli estremi confini spirituali con la morte. E per questo lo abbiamo sentito vicino e gli abbiamo voluto bene, sempre.
In lui il sapere era immenso, ed esteso non solo alla musica, ma non rappresentava la qualità fondamentale della sua persona: contavano di più l’emozione, il grado di partecipazione e di immedesimazione in ciò che amava e faceva. Anche come direttore è stato un caso atipico, più grande nelle intenzioni che nella realtà. Il suo carattere non stava nel comunicare e nel realizzare, ma nell’indicare, nel suscitare reazioni con l’esempio. E ciò spiega perché da alcuni fosse amato, da altri detestato. Quando dirigeva, sembrava voler cercare oltre le note, per cogliere un’essenza fatta di associazioni remote, stratificate nel tempo e nello spazio, tendenti idealmente a ricostituire una totalità scomparsa: in questo, anche come compositore, aveva veramente lo spirito dell’archeologo, del ricercatore, dell’analista. Si capisce che elettivamente fosse a suo agio nelle albe e nei crepuscoli, e che inconsciamente rimpiangesse la luce piena del giorno. Elaborare la perdita era il suo motto preferito. La città del sole il suo miraggio. Nel suo strenuo impegno, nella disciplina mostruosa, nel suo fanatismo contagioso verso l’assoluto si metteva continuamente in gioco, fingeva cinismo e disprezzo, ma sapeva che in fondo ogni pienezza, se esiste, è vanità e affanno. E se, come dice il Poeta, la vita è solo un’illusione, che cosa di più può essere la morte?