La Sinfonia

L

Beethoven fissò le colonne d’Ercole della sinfonia nella Nona, dove un tripudio di ideali umanitari, erompendo con inarrestabile necessità, travolgeva i mezzi dell’espressione postulando l’intervento della voce, dei solisti e del coro. La categoria stringente del Muss es sein beethoveniano abbatteva così le convenzioni del genere, additando al principio della musica assoluta, di cui la sinfonia era portatrice, mete più alte: paradossalmente ancora più assolute di quanto non fossero state fino ad allora nei giochi affidati alla sola orchestra. La sinfonia in quattro movimenti ben proporzionati ed equilibrati, innervata dalla forma-sonata e tendente alla simmetria circolare, slittava verso una forma ciclica che dalla ricapitolazione tematica – non più semplicemente ripresa astringente – traeva lo slancio verso un finale trasfigurato, innodico, verticistico: nel quale ora si svelava, con un salto di livello anche concettuale, oltre il destino e il fine, il senso stesso dell’opera. Beethoven fu il primo a dare al finale di una sinfonia il significato non di una conclusione, ma di un passaggio verso l’opera aperta. E il problema del finale, che automaticamente imponeva una riconsiderazione dell’intero percorso sinfonico, sarà dopo Beethoven il vero rompicapo della sinfonia.
    Il pensiero forte di Beethoven lasciò tracce indelebili, ma provocò anche reazioni critiche che, pur nell’ammirazione sconfinata, non ne condividevano gli esiti. Schubert per esempio, nella sua ultima Sinfonia in do maggiore detta “”La Grande””, recuperò nel grande formato ciò che Beethoven aveva superato, ossia la dilatazione delle parti in un’architettura ornata ma rigorosamente dimensionata sugli equilibri interni, sulle accelerazioni e sulle sospensioni, sulla visone d’insieme improntata a unità d’ampio raggio: la fuggevole citazione del tema dell’inno alla gioia beethoveniano nel quarto movimento vi passa come un soffio carico di memorie, ma conduce a una insistente conferma di un carattere tanto gioioso, ottimistico, quanto interamente affidato alle capacità di definizione dell’orchestra. Anche Brahms, nell’ultimo movimento della sua Prima Sinfonia, citerà nel grande tema del corno il passo di svolta beethoveniano, ma solo per immetterlo in un circuito di crescente elaborazione orchestrale che affida a gesti di grande eloquenza puramente sinfonica l’idea di un generale e inarrestabile tripudio.
    Se in questi momenti chiaramente simbolici si assiste a una sorta di risposta alternativa al pensiero metafisico di Beethoven, altri autori venuti dopo di lui, e dunque segnati comunque dall’ombra del gigante – immagine usata da Brahms per rimarcarne l’influenza -, imboccarono strade apparentemente congiunte, in realtà tendenti verso nuove aspirazioni. E’ il caso di Mendelssohn e di Schumann, che giunsero alla sinfonia faticosamente, tardi o per vie traverse. Nel catalogo mendelssohniano figura al secondo posto una Sinfonia che almeno esteriormente, per la presenza dei solisti e del coro, può essere considerata l’unica e più diretta erede della Nona di Beethoven: ma nel cosiddetto Lobgesang (Canto di lode) su testi biblici agisce piuttosto, accanto all’occasione celebrativa, la nuova concezione romantica di sinfonia come cantata, spostando dunque l’asse del problema. Per il resto, Mendelssohn si mantenne fedele da un lato alla rivisitazione delle formule classiche, dall’altro a uno spirito illustrativo e fantastico, immettendolo nel circolo di un agire rapsodico di tipo ciclico. Anche Schumann usò nelle sue Sinfonie spunti extramusicali, connotandoli di tratti paesaggistici e latamente culturali che spostavano i contenuti della sinfonia su un versante più accesamente descrittivo: salvo poi far ritorno, con la Quarta Sinfonia, a un modello che di Beethoven recuperava la ferrea concentrazione della Quinta, tutta addensata sul carattere eroico del monotematismo e dello sviluppo senza soluzione di continuità. Si apriva così una sorta di recupero interno della forma in quanto tale, che ne ridisegnava le coordinate senza mettere in discussione né il principio dell’organismo sinfonico né quello della sua autonomia strutturale. Perfino nella Sinfonia fantastica di Berlioz, dietro a una veste ostentatamente rivoluzionaria, resta l’impalcatura di una sinfonia classica, che nell’articolazione in cinque movimenti denuncia il suo modello nella Pastorale e serba in gran parte gli schemi (la forma-sonata con introduzione lenta nel primo movimento) e le funzioni (di Scherzo, di tempo lento, di finale) della “”musica assoluta””.
    Nel secondo Ottocento, con il distacco anche temporale dall’età classica,  la sinfonia sembra vivere una fase più decantata e meno problematica. Scrivere sinfonie non rappresenta più un obbligo, ma una scelta personale, che come tale richiede motivazioni e consapevolezze. Accettare di confrontarsi con essa significa mettere da parte altre opzioni che nel frattempo si erano profilate con la loro netta individualità: il poema sinfonico prima di tutto, e il teatro stesso, che negli sviluppi dell’opera tedesca, di cui Wagner poteva essere considerato il punto d’arrivo, e delle scuole nazionali aveva inglobato forti aspirazioni sinfoniche. Cade così del tutto la questione pregiudiziale della forma, anche se permane quella dell’articolazione e si aggrava il problema del finale: difficile pensare a una conclusione teleologicamente indirizzata verso una meta. I pesi vengono distribuiti all’interno dei quattro movimenti (sempre quattro, ma differenziati nelle funzioni), la sostanza tematica si moltiplica (la dialettica del bitematismo nel primo movimento sfuma con l’aggiunta di un terzo tema, già in Brahms, mentre si accresce la tendenza a una disposizione ciclica, con ritorni interni dei temi), aumenta la necessità di maggiori durate per realizzare un pensiero sinfonico che nel frattempo si è caricato anche di implicazioni psicologiche e di sovrastrutture emotive. Se Brahms rappresenta l’argine della saldezza della forma al proliferare delle idee (sicché l’impianto classico è il miracoloso contenitore di varie suggestioni romantiche), in altri autori si fa più urgente la tendenza a spingere la sinfonia a mezzo di espressione personale, quasi  confessione dei propri sentimenti, del proprio modo di sentire e di pensare: la sinfonia diviene così un terreno nel quale è possibile muoversi per tracciare il profilo di una concezione del mondo, sfruttandone la stessa eterogeneità e ripensandone gli schemi classici. Mahler porterà questo modo di essere alle estreme conseguenze, decretando la fine della sinfonia in una sontuosa mascherata nella quale della sua identità originaria rimarrà soltanto il nome deformato, o il ricordo nostalgico.
    Nella seconda fioritura ottocentesca della sinfonia Bruckner rappresenta un’oasi di bellezza incontaminata. I suoi blocchi sonori, le sue arcate a cielo aperto attraversano i tempi e gli spazi della forma con un respiro dilatato a pieni polmoni, refrattario a qualunque dubbio sulla consistenza dei suoi valori: la sinfonia vi celebra il suo trionfo più pieno e solenne proprio in quanto concento di suoni, trovando per esso un idioma inconfondibile e una specie di unico messaggio sottinteso. Nella Quarta Sinfonia  questi tratti stilistici risultano talmente espliciti da diventare normativi: e ciò spiega perché essa rappresenti la quintessenza del sinfonismo “”romantico”” bruckneriano. Dove romantico sta principalmente per pimento generosamente diffuso nella composizione (nei suoi temi, nei suoi timbri, nelle sue progressioni aggettanti), mentre la sostanza permane orientata da una disposizione classica nella distribuzione dei pesi e delle relazioni. Il primo movimento misterioso e grandioso, a poco a poco emergente dal motivo solitario del corno (ecco un vero tema) che mette in moto una reazione dinamica di perorazioni, ondate sonore, contrappunti e corali; il secondo pervaso di struggente malinconia e di richiami di natura palpitanti sullo sfondo di un corteo funebre; il terzo aggressivo e animato, tra squilli di corni e di trombe, quasi fanfare di caccia; il quarto infine ricapitolativo e tuttavia ombroso, solo da ultimo slanciato come in un’ascensione e possente nelle sonorità dispiegate: tutto in questa Sinfonia concorre a definire una visione di assoluto nitore.
    Al contrario Cajkovskij  mette l’accento sul dolore cosmico che si riflette nel destino umano, trovando comunque nella forma della sinfonia un mezzo ancora capace di eloquente espressione. La neutralità della forma è continuamente scossa da introspezioni malinconiche, da estroverse ribellioni, da esplosioni drammatiche seguite da una tranquilla, completa rassegnazione. Il sismografo registra una maggiore incidenza della confessione individuale e a intermittenza una deviazione verso snodi popolareschi, nei quali l’anima del popolo sembra venire in soccorso dell’identità smarrita. E la sinfonia sembra divenuta ora lo specchio di un monologo ininterrotto e straziante, la cui eco si protrae in dissolvenza verso un sogno di conciliazione perduta.

                          

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