Torino – Die Konigin von Saba di Karl Goldmark (1830-1915) mancava in Italia da novanta anni. Tra il 1875, data della sua prima rappresentazione a Vienna, e la fine del secolo scorso fu uno dei più grandiosi e incontrastati successi del teatro musicale europeo. In quei venticinque anni si conquistò anche in Italia una ragguardevole notorietà, collezionando ben undici edizioni diverse per un totale di un centinaio di recite (erano state cento nella sola Vienna già nel 1897) e attirando a sé nomi di interpreti importanti, non solo cantanti famosi, ma anche eminenti direttori d’orchestra, a conferma di un interesse musicale di respiro più ampio. Nel 1901 Gustav Mahler la ripresentava a Vienna in una nuova versione, e nello stesso anno Arturo Toscanini la portava a Buenos Aires, con Enrico Caruso nella parte di Assad, il protagonista maschile. L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Destava quindi curiosità la scelta del Regio di Torino (dove fra l’altro l’opera ebbe il suo battesimo italiano nel 1879) di riproporla all’attenzione del pubblico di oggi. Per cercare di capire non solo i motivi di un’eclissi tanto improvvisa quanto duratura, ma anche il valore in sé di una partitura un tempo tanto ammirata ed eseguita.
Sulla scomparsa dai teatri italiani, la risposta può essere semplice se messa in relazione con lo stato della musica negli anni del primo Novecento e con la polemica nazionalista contro il teatro musicale ottocentesco, tedesco in particolare. Più complessa è invece la questione sul valore in sé di questa partitura così densa e voluminosa (tre ore abbondanti di musica). Anche perché La regina di Saba non è un documento che ci aiuti a ricostruire un’epoca della storia del teatro del secondo Ottocento, ma un’opera fortemente originale e individualmente caratterizzata, che accumula e accosta esperienze di provenienza assai diversa. Non è propriamente un dramma musicale di stampo wagneriano, anche se gli schemi delle forme chiuse sono allargati in un declamato che tende alla continuità e alla melodia funzionale al dramma, e non è un grandopéra convenzionale, anche se prevede grandi balletti e cori che intervengono nell’azione. La dinamica delle situazioni tende a bloccarsi in punti culminanti dilatati fino a diventare quadri statici. Invece, le espansioni liriche sembrano rifarsi al modello della vocalità insieme robusta e svettante di scuola italiana.
Ne risulta una visione un po’ sghemba rispetto alle tradizioni dell’opera lirica contemporanea. Ed è in questa prospettiva che Goldmark mette un solido mestiere al servizio delle sue ambizioni di compositore di teatro. La più evidente delle quali è nella ricerca di integrare in modo spettacolare un intreccio romanzesco con un contesto storico ricco di motivi politici, etici e religiosi. Alla sensualità e alla ebbrezza dell’immaginario esotico si contrappone così il solenne richiamo ai rigorosi principi della tradizione ebraica e biblica. Il crescendo drammatico si rispecchia in una condensazione di questi simboli musicali fino alla dissolvenza di un finale di nobile espressività, dove la natura del sinfonista sembra rivelare la sua superiorità su quella del compositore di teatro.
L’esecuzione musicale ha avuto in Yuri Ahronovitch una guida molto sensibile e partecipe, impegnatissima a ottenere dall’orchestra non sempre irreprensibile del Regio i giusti colori e contrasti. L’entusiasmo con cui ha affrontato questa partitura si è trasmesso anche ai cantanti, aiutandoli a dare il massimo; certi limiti ormai invalicabili in voci usurate e stanche come quelle di Licinio Montefusco (Salomone), Bonaldo Giaiotti (il gran Sacerdote) e soprattutto Elena Mauti Nunziata, incappata in incidenti di percorso davvero gravi (il suo registro acuto non le consente più di affrontare parti spinte come quella qui richiesta) hanno ridotto assai l’effetto dello sfondo sul quale si proietta la vicenda del peccaminoso amore di Assad per la bella regina. Che erano, rispettivamente, Nicola Martinucci, tanto squillante negli acuti quanto poco flessibile nel declamato, e Jeannine Altmeyer, l’unica che a tratti si ponesse anche problemi stilistici al di là delle pur scabrose difficoltà vocali.
L’idea di spostare la vicenda dai luoghi e dai tempi di re Salomone alla Vienna fine Ottocento di Goldmark, con relativa opzione per un generico Jugendstil, poteva risultare se non esatta almeno interessante qualora le scene di Paolo Bernardi e soprattutto la regia di Peter Busse, pasticciona e teatralmente oscura, avessero inteso darci il profumo dell’esotico e dell’edonismo che Goldmark evidentemente vedeva in una mitica lontananza, e che forse per noi oggi può essere allusivamente trasmesso dal liberty. Invece tutto si risolveva in una trovata intellettualistica e per niente efficace, ulteriormente compromessa dal debole intervento del balletto in abiti moderni.
In questi casi, ciò che conta è il significato dell’operazione culturale. O almeno così si suol dire. La cronaca registra una progressiva defezione da parte del pubblico, e un caloroso successo alla fine. Ma molti di quelli che erano rimasti si erano segnalati per un’indisciplina di ascolto davvero sconcertante.
«Die Königin von Saba» di Goldmark al Teatro Regio di Torino; repliche oggi, il 3, 6, 10, 13, 16, 19, 21 e 23 febbraio)
da “”Il Giornale””